Denso

di Rosario Mattia Moniaci

Sta scomparendo, lo sai. Lo annoti ogni sera, sulla faccia bianca di fogli già usati per non sprecare niente, così il senso di colpa che ti pervade è meno violento. Scrivi pagine e pagine da quando è comparsa la nebbia.

Arriva puntuale, poco prima dell’alba. Appare come un vapore pesante, un chiarore fluttuante sulla laguna ancora nera. Sembra la stessa di ogni anno, la stessa che scende prima del primo battello e si dirada all’ora della pausa caffè.

Solo che adesso non accenna più a sollevarsi. Rimane lì, una sospensione imperturbabile sulle calli e sui pontili, fitta e densa intorno all’isola.

Questa nebbia non ti convince: troppo diversa dal solito, troppo nitida, palpabile, come un muro apparso improvvisamente intorno all’isola. Se avessi una barca tenteresti di raggiungerla per toccarla. E invece una barca non ce l’hai. Magari perché tuo nonno era spazzino, tuo padre era spazzino, e spazzino lo sei anche tu. La tua è una famiglia che ha sempre preferito le fondamenta ai canali. E magari hai imparato tanto sull’isola grazie al tuo lavoro. Hai imparato a comprenderla. Vederla quando sta per svegliarsi è una cosa tanto intima, come il risveglio di una donna con la quale hai passato la notte; ché dopo anni di albe insieme lo capisci subito se quella mattina sarà come le altre, e quella della nebbia che respiri ora non lo è affatto.

Lavori distratto, guardando le prime persone uscire dalle case, assonnate. Si stringono nei colletti delle giacche, un istinto incapace di rinunciare al dolce tepore della trapunta di un letto, vedono la nebbia e, sbuffando, poi incamminandosi lungo la strada, si disfano delle ultime briciole di sogno rimasto loro nella bocca ancora impastata di sonno.

Quel loro sparire nel nulla ti inquieta e ti stringi la tuta da lavoro addosso rassicurato dai suoi colori fosforescenti.

Allora, ecco che un bisogno primordiale di scrivere ti assale. Ogni giorno appunti qualcosa, tutto quello che sai e percepisci della tua isola, tutto ciò che ami di lei e tutto ciò che odi; ne descrivi calli, ponti, portici; racconti aneddoti origliati da vecchi pensionati ubriachi, storie dei suoi cittadini e dei mille turisti che la deturpano. Tutto quello che sta per scomparire lo trascrivi affannosamente sulle tue pagine riciclate prima di andare a dormire e, intanto, la mattina spazzi le fondamenta e con sguardo nostalgico cerchi l’orizzonte per disegnare con gli occhi il profilo perduto delle altre isole.

Adesso sei in un bacaro e ogni tanto, a fine turno, quando con i colleghi ti concedi un’ombretta, la paura di sparire diventava un brivido che ti ammutolisce.

Guarda lì, un abbagliante bagliore bianco si è diffuso sul campo, attutisce i tuoi pensieri iniqui. Guardi i gabbiani posarsi esitanti sul canale, sfiorare con le ali l’acqua che si sta trasformando in un vapore denso e chiaro, si sollevano con lo sforzo che si dissipa in un grasso garrito, fluttuano incerti e rasentano i ponti e i muri delle case, quasi avessero paura di salire più in alto, là dove non c’è più niente.

La navigazione è sospesa, lo senti dire nel bacaro da qualche voce dislocata. Andare per i canali è troppo pericoloso, dalle cabine dei battelli non si distinguono le briccole, figurati i pontili, e nessuno ha il coraggio di avventurarsi al largo per accertarsi della situazione sulle altre isole.

Hai deciso di ospitare per un paio di giorni un tuo amico. Un tizio che viene tutte le settimane da un isolotto lì di fronte per vendere i propri ortaggi. La nebbia lo ha bloccato, lui con tutta la barca. Scruta l’orizzonte mentre, tra una boccata di fumo e l’altra, ti accarezza con pacche di sollievo.

Tranquillo, vecio, sono tutti lì, chi vuoi che ci sposti a noi altri?

Eppure promana un’inquietudine affilata anche lui. Lo vedi dalle grinze intorno alla bocca. Non riesce a resistere a questa pesantezza che colma i polmoni, come se respirasse cemento, allora sale sulla sua barca e si avvia verso casa.

Immerso in questa bruma abbacinante, osservi i suoi contorni sfumare, assottigliarsi, frantumarsi. E una volta perso nitore, la voce dell’amico risuona lontanissima.

Ci vediamo mercoe al mercato.

Ma ecco che arriva mercoledì. Al mercato, il mercoledì mattina lui e la sua barca non ci sono.

Immerso in questa bruma pesante, seduto su una panchina, annoti anche questa storia sul tuo mucchio di fogli riciclati.

Tu sei in mezzo al campo, a percorrere i tuoi soliti passi intorno al pozzetto in compagnia della tua scopa e, mentre lavori, ti passa davanti una vecchia. Si trascina col suo solito passo incerto, un po’ sbilenca per quella gamba più lunga dell’altra, stringe il giornale sotto il braccio. Ti conosce da quando sei bambino e ricordi che usciva sempre presto, quando tutto era ancora buio e la luna sbirciava tra i tetti, in contrasto con le poche finestre lasciate accese apposta da chi abita ai piani superiori: era la prima a comprare il giornale. Se lo portava per un po’ in giro, poi rientrava e lo leggeva lentamente mentre si faceva il caffè. Questa mattina, però, ti cattura lo sguardo con quel suo giubbotto catarifrangente, che non le hai mai visto indossare. Sotto il braccio, nel giornale arrotolato, sbuca un mazzo di tulipani rosa e girasoli. Lei ti fissa con quei suoi occhi stretti tra la fitta rete di rughe e la gamba più corta che esita nel compiere il passo successivo.

Che bella giacca che ha quest’oggi, signora.

Rantoli, un po’ per timidezza, un po’ per l’umidità che impregna la tua laringe.

Lei, in tutta risposta mugugna e con cenni bruschi sfila un girasole dal mazzo. Lo agita in aria:

Non faccia l’imbecille pure lei. Ha perso la testa a raccoglier le scoasse? Qua si sparisce tutti se non si sta attenti.

Ti lancia il girasole e mentre si incammina per andare via ti urla:

Stiamo tutti scolorendo, faccia come me, che mi afferro alle cose che hanno ancora un po’ di colore.

Tu sei in mezzo al campo in compagnia della tua scopa e la lasci andare senza dire nulla, confuso. Ti pieghi per prendere il girasole che lei ha gettato e mentre lo raccogli ti accorgi di vedere male. I contorni e i colori delle cose sono consumati, come una maglietta strofinata troppo a lungo. La tua stessa mano ti appare leggera e semitrasparente come carta velina.

Ti ritrovi nel bacaro, in compagnia degli altri per l’ombra del giorno e ti accorgi che pure loro sembrano nervosi, lamentano di vederci male, che la nebbia gli è entrata nella testa e negli occhi.

Sei nel fosco della tua camera. È sera e prima di addormentarti trascrivi sulle facciate bianche dei tuoi fogli dell’incontro che hai avuto quella mattina con la vecchia signora. Ricordi che sul tavolo della cucina c’è un bicchiere lungo e stretto, colmo di acqua per il fiore che hai deciso di raccogliere da terra.

Scrivi, alzi la testa, esiti, scrivi, rialzi la testa e lo guardi.

Ogni volta che lo sbirci ti pare che perda colore, che il giallo dei suoi petali si intrufoli nelle venature per nascondersi sempre di più. Ti stropicci gli occhi e riprendi a scrivere.

Scarabocchi rapido e nervoso. L’inchiostro nero della penna è diventato grigio, le righe del foglio sul quale scrivi devono essere state stampate male, in alcuni tratti si assottigliano al punto da apparire quasi invisibili.

Una rabbia immotivata ti fermenta nel petto e per la prima volta, da quando avevi iniziato, decidi che per questa sera smetti di scrivere.

Ti alzi, esiti, ti siedi, raggiungi la finestra, scosti le tende.

Sotto di te non c’è altro che un niente pesante. Spariti i campanili, spariti i tetti, spariti le altane delle case tutt’intorno alla tua. Il tuo respiro si spezza in un rantolo di doloroso stupore.

Sei immerso nel denso e ti muovi incespicando, urti una sedia, che incredibilmente sparisce prima di cadere sul pavimento, colpisci l’angolo del tavolo, che fa male anche se già non c’è più, allora ti allunghi verso i tuoi fogli e imprechi una salmodia impercettibile perché non ci arrivi e col braccio rovesci il bicchiere che contiene il girasole ancora visibile solo per metà. Le pagine sovrapposte, aperte, vicinissime alle tue dita. Ti stendi sulla parte di tavolo rimasta, con l’acqua che ti bagna la maglietta ma le cui gocce non compiono in tempo la caduta verticale.

Sei nel fosco della tua camera ad espettorare un verso animale, ma non lo senti risuonare nelle orecchie, così come non senti la carta sotto i polpastrelli. Si è già sgualcita, insieme a tutte le sue righe e all’inchiostro e alle parole che hai scritto fino a questa sera e non potrai più continuare, non con queste mani almeno, non con queste mani che non si vedono più.

Lascia un commento