Se non torna me ne vado

di Eva Mascolino

In Francia nessuno ormai si faceva scappare di bocca che sopravvivere senza certezze a cui aggrapparsi fosse possibile. La storia di Paul-Antoine Moreau, il pittore di Parigi che qualche anno prima si era trasferito a Strasburgo, aveva fatto il giro del paese più in fretta degli spedizionieri ed era servita a tutti come esempio.

Se non avesse avuto certezze, lui, sarebbe senz’altro diventato matto, conveniva la gente che l’aveva conosciuto. Pochi al suo posto avrebbero resistito con la stessa lucidità ai fatti che gli erano toccati in sorte. Naturale, c’era anche chi sosteneva che la sua sopravvivenza fosse al contrario da attribuire a un seme di follia congenito, grazie al quale Paul-Antoine Moreau poteva sopportare, anzi, affrontare propriamente, sì sì, affrontare l’uno dopo l’altro i capricci della provvidenza.

Come che fosse, ci si trovava d’accordo tutti nel considerare responsabile degli eventi non tanto il burbero Paul-Antoine, che di sventurato aveva solo l’aspetto, quanto le labbra di Ivane Duval.

Ivane Duval era la prima ballerina del Moulin Rouge del boulevard de Clichy, una di quelle a cui si scattavano fotografie bellissime in bianco e nero quando ancora a noi era dato di vederne raramente, nei club più famosi di Parigi, o di nascosto, o per sbaglio su una gazzetta.

A Ivane Duval erano riservati una dozzina di scatti al giorno ogni tre giorni: roba che neanche nel Paese di Cuccagna, mormoravano in molti. E la notizia lasciava tanto più con la bocca asciutta, quando si realizzava che la giovane non era poi particolarmente belloccia.

Non per altro era stata accettata nel corpo di ballo del locale, se non per via delle gambe un po’ tozze, capaci di sopportare le fatiche imposte dal maestro, e del seno prosperoso che molti clienti del locale festeggiavano alla prima apparizione pubblica di ogni sera, senza rimpiangere la silhouette di gran lunga meno provocante delle altre ballerine.

A casa, nel frattempo, le donne che non seguivano i mariti nel fare il bello e il cattivo tempo al Mouline Rouge avevano preso a ricamare cattiverie sul conto della neo‒stella parigina, la cui madre era stata misteriosamente trovata morta da un giorno all’altro.

Per Ivane Duval questo era stato il secondo lutto familiare, sebbene il primo effettivamente sofferto: il trapasso del padre – unico panettiere del sobborgo presso cui alloggiava la famiglia – gli aveva fatto abbandonare clienti abituali e parenti più o meno lontani quando la figlia aveva solo quattro anni. Per lei fu una fortuna aver memoria dei lustrini e delle scarpe a lutto che le era toccato indossare per qualche tempo, anziché delle busse che il padre dispensava alla moglie dopo qualche notte di bevute incontrollate, o delle villanie che riservava a chi gli chiedeva azzardatamente il benché minimo favore.

 Forse, però, se Ivane Duval avesse avuto accanto il padre per più tempo non sarebbe diventata famosa per il suo cancan, né la madre sarebbe finita a fare la lavandaia vicino a rue Croulebarbe. Con il denaro faticosamente guadagnato in panificio – poi ceduto al primo usuraio che si era fatto vivo dopo la sepoltura di monsieur Duval – suo padre avrebbe potuto mantenere a Ivane almeno l’istruzione elementare e risparmiare alla moglie parecchie umiliazioni.

Ora, invece, la vedova Duval abitava con la figlia nel contado cui si accedeva dal passaggio Moret, delimitato sul lato destro dagli orti e a sinistra dal Bièvre. Il fiumiciattolo attraversava catapecchie e concerie e lasciava che lungo le proprie sponde signore e signorine piazzassero i tavoli da lavoro, occupandosi di strofinare i panni dalle prime luci dell’alba fino al tramonto.

La scoliosi della vedova Duval le era diventata quotidiana compagna di sventure e la faceva lamentare più del dovuto, mentre capillari, fibre e nervi di Ivane Duval si agitavano dentro la poveretta impedendole qualsiasi tregua. Gli anni mangiavano l’uno dopo l’altro le settimane e i mesi sempre più in fretta e lei, Ivane Duval, ancora portava addosso il paio di stivaletti grigi e la giacchetta che le aveva regalato il parroco durante la Prima Comunione. La capitale francese era diventata una bolla di fumo grigio e di danaro, da pochi anni aveva ospitato un’Esposizione Universale e una torre di solido ferro, eppure lei, Ivane Duval, ancora non aveva smesso di collezionare cose noiose e di aggirarsi per i pochi ettari che conosceva a memoria.

Le donne che badavano agli orti anche d’inverno avrebbero scommesso il proprio raccolto annuale che niente sarebbe cambiato di lì a parecchi decenni, né per loro né per la famiglia Duval. Invece, la frustrante routine di Ivane si era inaspettatamente conclusa il giorno del suo quindicesimo compleanno, quando un giovanotto dai calzoni corti aveva bussato all’uscio della capanna per informarla della sepoltura della madre, che non rincasava ormai da tre giorni e che era stata rinvenuta vicino Rue de Vaugirard con addosso il proprio grembiule stracciato e una bottiglia di liquore frantumata accanto a sé.

A identificarla era stato Joseph Aubertot, uno degli operai che a madame Duval capitava salutare più spesso, quando si avviava al Bièvre per lavare i panni. Sostenendo di trovarsi nei paraggi per procurarsi del carbone a basso prezzo da un conoscente, Joseph Aubertot era inciampato sul corpo esangue della donna, ne aveva riconosciuto i tratti del viso e si era premurato di trascinarla via dal ciglio della strada. Era un bravo cristiano, lui, nessuno lo aveva mai messo in dubbio.

Credendola svenuta, l’aveva trasportata sopra la propria carriola malconcia fino all’ospedale di Saint Jacques, richiedendo espressamente di non avvisare Ivane Duval finché le condizioni della madre non fossero migliorate. Non si sa mai che la disgraziata si preoccupi troppo senza motivo, aveva spiegato a un’infermiera, rigirandosi il berretto fra le mani e dondolando sui piedi, come se nonostante la buona azione non vedesse l’ora di allontanarsi dalla puzza di malattia che si respirava lì.

I fatti si erano verificati due giorni prima.

In realtà la vedova Duval era già morta all’arrivo e con poche cerimonie il suo corpo era stato spostato dall’ospedale al cimitero, dove un curato ne aveva celebrato le esequie in assoluta solitudine. Si era segnato una, due, tre volte e mezzo, via, e poi aveva comandato a un garzone del proprio poderetto di mettere al corrente dell’accaduto la famiglia della defunta.

Ivane aveva fatto visita alla madre in giornata, pagando un carrettiere affinché le facesse il grande favore di portarla fino al cimitero di Montparnasse. Il cimitero di Parigi, certo, di Parigi.

Si era segnata proprio come il curato, una, due, tre volte e mezzo, via, e poi aveva pianto un poco tra una parolina e l’altra, lasciando un fiore di campo sulla piccola tomba. Dopo che le lacrime le si erano asciugate da sole lungo le gote, Ivane Duval era uscita dal cancello centrale senza domandarsi da che parte del camposanto fosse stato invece interrato suo padre nel 1880. A stento aveva imparato a leggere, figuriamoci quanto ci avrebbe messo a riconoscere il nome del signor Duval Sciarl, Charl, o Dio solo sa come, in mezzo a tutti gli altri.

Perciò, era andata via e si stava aggirando fra le viuzze dell’arrondissement, quando lo sguardo le era caduto sul manifesto colorato di un cabaret.

L’idea di presentarsi per un’audizione presso i locali popolari più in voga l’aveva folgorata immediatamente.

Poiché non aveva né tutori né parenti in vita, infatti, sapeva che le sarebbe toccato sostituire la madre nella mansione di lavandaia, oppure emanciparsi sfruttando l’età o le forme che madre natura le aveva messo a disposizione, così da procurarsi qualche spicciolo per mantenersi. Ma se l’intento era evitare di tirare le cuoia, ebbene, tanto meglio per Ivane Duval sarebbe stato rispolverare le rare lezioni di danza che la madre le aveva impartito da ragazzina per divertirla e mangiare il suo tozzo di pane giornaliero a suon di musica.

Il primo locale in cui si era presentata era stato proprio il Moulin Rouge e le era bastato un estenuante esame fisico per restarci, facendo presto parlare di sé molti fra gli habitué del luogo in meno di trenta sere. La Golosa, come era stata poi soprannominata, era infatti sfacciata senza volgarità e talentuosa senza superbia. Il supervisore che le aveva concesso quattro settimane di prova nel corpo di ballo lo aveva capito al volo e aveva così sancito la propria fortuna e quella di Ivane Duval.

Dal momento in cui l’avevano nominata prima ballerina, dopo che le luci del locale si spegnevano e gli avventori lasciavano il posto al suo decaduto fasto mattutino, la Golosa aveva preso ad asserire fra sé e sé che con i pianeti non c’era da scherzare. La madre le aveva trasmesso una devozione ecclesiale nei confronti di congiunzioni, quadrature e trigoni astrali e lei, Ivane, non voleva la si credesse una miscredente proprio quando il suo destino personale sembrava essere cambiato: non si scherza con i pianeti, ribadiva dunque la danzatrice. Bisogna essere sempre pronti a lasciare andare ciò che si possiede o a possedere ciò che fino a ieri eravamo sicuri di non poter sfiorare.

Quando questa frase era arrivata alle orecchie di Paul-Antoine Moreau, il pittore si era girato in direzione della ballerina chiedendole:

– E voi che ne sapete?

La Golosa gli fu presentata solo allora, quando la sua miracolosa scalata nel corpo di ballo aveva raggiunto l’apice e Paul-Antoine era stato contattato per la commissione di un manifesto in cui ritrarre proprio il talento emergente del ritrovo a luci rosse, con il suo immancabile cuore ricamato sulla culotte.

Dopo i convenevoli Ivane aveva ribattuto:

– Non si scherza e basta, signore. Lo so perché lo so. Uno deve essere sempre pronto a lasciare andare quello che possiede e viceversa. Voi non trovate?

Paul-Antoine si era toccato il ginocchio con il bastone.

– Trovo eccome. Vedete questa mia gamba, mademoiselle?

– Sì, signore.

– Ebbene, mi si è fratturata a dieci anni. Sono scivolato su un pavimento incerato e l’ho persa.

– Oh.

– E vedete quest’altra gamba, ma chère?

– Naturalmente.

– Questa mi si è rotta l’anno seguente, quando sono caduto in un fossato. Ricrescendo, il femore si è spostato in tutti e due i casi di qualche millimetro in avanti rispetto alla tibia. E adesso sono come mi vedete.

– Santo cielo…

– Ecco perché trovo che abbiate ragione, mademoiselle. Non si scherza con i pianeti. Era stabilito che dovesse andare così e così è andata. Nelle carte astrologiche che mi riguardano si leggeva tutto chiaramente.

– Vi credo, signore. I pianeti non mentono mai.

– Com’è vero Iddio, l’ho imparato sulla mia pelle. Né mento dicendovi che è un piacere conoscervi: raramente incontro qualcuno che si avveda a tal punto dell’ingerenza celeste nella nostra esistenza.

– Non dovreste congratularvi con me, signore. È stata mia madre a insegnarmi i calcoli astronomici e il rispetto per l’astrologia.

– Sarei onorato se mi presentaste vostra madre, allora.

– Temo di non poterlo fare, signore. È morta da qualche mese.

La rivelazione aveva scatenato in Paul-Antoine un insolito moto di compassione per quell’orfana che, pur nella scarsa istruzione che sembrava avere, condivideva con lui l’interesse per certa forma di divinazione e palesemente quello per il ballo.

Nessuno, quindi, avrebbe potuto impedirgli di aiutare materialmente Ivane Duval e di non farla ammalare di solitudine nell’ambiente corrotto del Moulin Rouge. Nessuno, tranne la stessa Ivane Duval, che insisteva nel borbottare di sapersela cavare da sé, pur essendo rimasta senza casa e senza averi.

Una volta assunta nel cabaret, infatti, la ballerina aveva venduto la capanna vicino al Bièvre per comprarsi qualche costume con cui andare in scena e con i risparmi tenuti sotto il materasso dalla madre aveva poi pagato un giovane truccatore, che le aveva acconciato a modo i capelli, tagliato le unghie e imbellito il volto con qualche bizzarra trovata.

Di conseguenza, adesso Ivane Duval non aveva dove rincasare. Talvolta faceva all’amore con qualche cliente abituale e ne approfittava per dormire nel di lui letto, talvolta aspettava le prime luci dell’alba fumando uno dei sigari che riusciva a procurarsi settimanalmente, o appisolandosi sul marciapiede di un vicolo. In ogni caso, non batteva mai i denti per il freddo, non amava commiserarsi e non apprezzava le attenzioni di Paul-Antoine Moreau.

Tutte le volte che il pittore doveva raggiungere il cabaret per affari, riusciva a fissare gli appuntamenti a sera inoltrata. A mezzanotte le ballerine più virtuose davano il via alle esibizioni, così Paul-Antoine poteva spostarsi al centro della sala e cercare il busto di Ivane, mentre un turbinio di calzamaglie faceva tremare il palcoscenico. D’abitudine non gli ci volevano più di due o tre secondi per riconoscerla. Aspettava di assistere alla sua prima spaccata e poi si allontanava sgomitando, pur continuando ad applaudirla durante il tempo che passava al bancone a discutere di lavoro.

Nessuno prese sul serio la sua infatuazione, finché una mattina Paul-Antoine non pronunciò una delle tre frasi che lo avrebbero reso famoso in Francia per più di un trentennio. La frase era: Io voglio scrivere a colori. Ed era riferita a una pericolosissima convinzione che secondo il proprietario del Mouline Rouge quel ciarlatano s’era ficcato in testa, credendo di essere diventato da un giorno all’altro un maledetto impressionista.

La folgorante idea di scrivere a colori avuta da Paul-Antoine, in verità, non era legata alla corrente dei Pennellacci, come il pittore definiva malignamente Monet e i suoi, ma solo alla figura di Ivane e alle sue gonne svolazzanti. Paul-Antoine aveva provato a dipingerle e aveva sempre finito per dimenticarne la forma o per ricorrere a tonalità molto simili fra loro, alla lunga poco espressive. Pertanto, aveva deciso di ripiegare sulla scrittura per abbozzare un resoconto delle movenze della prima ballerina e presentarlo eventualmente a un editore.

Sarà un racconto a colori, andava spiegando Paul-Antoine, convinto che avrebbe saputo trasferire fra una virgola e l’altra lo spettro del visibile per intero: gli aggettivi sarebbero diventati ghirigori e i verbi un affresco degno di essere esposto accanto a quelli dei pittori Rinascimentali.

L’unico inconveniente consisteva nel diniego inequivocabile di Charles Ziedler, datore di lavoro sia suo che della Golosa, il quale gli aveva intimato: Puoi usare i colori solo per i cartelloni che ti commissiono, per tutto il resto usa solo brillantina e occhiale. Come a dire: Tògliti dalla testa il proposito di conquistare Ivane attraverso un’arte che non sia sottoposta a miei precisi ordini. Se proprio la vuoi corteggiare, fallo con gli strumenti che usano tutti gli altri galantuomini.

Il pittore non aveva alternative. Senza il denaro del proprietario del Moulin Rouge e senza alcun pretesto per assistere gratuitamente alle performance di Ivane sarebbe morto forse contemporaneamente di fame e di desiderio del desiderio. A tre giorni dalla minaccia di Charles Ziedler, nondimeno, Paul-Antoine concepì la seconda delle tre frasi che lo avrebbero reso famoso in Francia per più di un trentennio. Precisamente la frase era: Io bacerò comunque quella bocca.

E la bocca era, naturalmente, quella di Ivane Duval.

Se una chiromante all’angolo dei boulevard gli avesse predetto per pochi franchi il giorno e la maniera in cui l’intento di Paul-Antoine si sarebbe avverato, lui l’avrebbe derisa e si sarebbe sentito ferire da simili vaneggiamenti.

Eppure, nel giro di qualche settimana, proprio come era successo al suo mentore anni addietro, Ivane si era fratturata il femore scivolando sulle assi del teatro mentre si esibiva: un ammiratore aveva buttato del vino rosso ai suoi piedi in segno di compartecipazione a una quadriglia e una brutta scivolata sul punto sbagliato del palco l’aveva costretta a sottoporsi a un’operazione chirurgica.

A finanziare con le attenzioni necessarie l’intervento alla Pitié‒Salpêtrière, nella parte est del quinto arrondissement, era stato il datore di lavoro di Ivane Duval, scommettitore incallito che voleva puntare fino alla fine sul suo purosangue migliore. Se si fosse trattato di una corsa di cavalli, Charles Ziedler sarebbe forse stato più fortunato. Dal canto proprio, l’operazione di Ivane non andò a buon fine e pochi giorni dopo la Golosa venne relegata in una camera dell’ospizio e licenziata.

Commosso dal destino vagamente tragico della propria eroina, Paul-Antoine le rimase fedele e inventò un mestiere che di lì a dieci anni gli americani avrebbero chiamato dell’uomo‒sandwich: bastava attraversare a piedi un centro abitato in lungo e in largo, sponsorizzando un prodotto il cui manifesto si portava appeso al collo e adagiato sul petto e sulla schiena. In questo modo il pittore era in grado di pagare settimanalmente a Ivane qualche antidepressivo e qualche ricostituente, nonostante il suo femore non avesse intenzione di riconciliarsi con le ossa che gli si erano spezzate accanto.

A giugno, finalmente, la Golosa venne dimessa.

Con il sovvenzionamento di Paul-Antoine affittò un bilocale a circa un quarto d’ora dall’abitazione dell’amico. Poiché continuava a camminare poggiata a una stampella di legno, si decise a dedicare un addio al mondo dei locali notturni e ripiegò sulla lettura di romanzi d’appendice grazie ai quali si alfabetizzò rapidamente. Di vitto e alloggio si continuava a occupare Paul-Antoine, beninteso. Solo quando Ivane ebbe smaltito le occhiaie e la delusione per una vita di sfarzi artificiali durata meno del previsto, il pittore le comunicò che era stata miracolosamente assunta in un circo. Si trattava di una compagnia itinerante pressoché sconosciuta nella capitale, ma che era gestita da persone oneste e disposte a retribuire a dovere i propri dipendenti.

Lusingata dalla proposta e sempre più convinta che con i pianeti non ci fosse mai da scherzare, Ivane si convinse che avrebbe svolto un’attività ben pagata con poca fatica, che avrebbe viaggiato per la Francia, che sarebbe stata a contatto con i bambini fra il pubblico e che avrebbe nuovamente sentito eseguire musica in suo onore, perciò non prese affatto bene l’ulteriore notizia che Paul-Antoine teneva in serbo per lei.

– Ti hanno ingaggiata come donna cannone – fu costretto a confessare l’amico a mezza bocca, per poi precisare che, con la menomazione fisica che ora si ritrovava, Ivane non avrebbe potuto pretendere ruoli più prestigiosi. C’era da sottostare alla volontà dei pianeti, Ivane doveva saperlo.

La Golosa, rimasta tale più di fatto che di nome, reagì nell’ordine con uno sguardo incredulo e feroce, con un isterico sfogo di pianto e con un prolungato sciopero del silenzio.

Paul-Antoine provò a smuoverla dalla sua afonia volontaria facendole visita più di una volta al dì, ma fu solo il settimo giorno che Ivane si schiarì la voce come se nulla fosse successo per chiedere all’amico, mentre lui le dava una tazza di latte caldo:

– A che ora devo essere sul posto per iniziare a lavorare nel circo?

Sorpreso, il pittore si concesse un sorriso sornione prima di indicarle un cinque con le dita della mano.

– Farò in modo che ti aspettino per domani stesso, se hai deciso di accettare l’incarico – aggiunse.

Ivane confermò la propria intenzione e l’indomani lasciò il bilocale alle quattro e trenta del mattino per non mettervi mai più piede, dal momento che lo stesso giorno, alla terza prova effettuata dentro la bocca da fuoco, qualcosa andò storto nella preparazione del numero. Il colpo venne fatto partire quando la donna‒cannone era ancora ben lontana dalla posizione che avrebbe dovuto assumere nel momento del lancio, con la conseguenza che il suo femore rotto restò dentro la canna, mentre il busto e il resto del corpo seguivano diligentemente Ivane fino a trenta metri più avanti, dove lei atterrò con un lieve scricchiolio del terreno.

L’assistente responsabile dell’incidente, un ragazzino di appena dodici anni che era stato più volte picchiato dal padrone del circo e che nella vita aveva paura di incassarle più che della morte stessa, si affrettò a nascondere il cadavere mutilato nel modo più scrupoloso possibile, scavando in onore di Ivane una fossa poco lontana dal punto in cui erano stati montati i tendoni.

Lì fece ricongiungere il femore sinistro alla gamba corrispondente, prima di oscurare con il terriccio umido e con uno sbrigativo segno della Croce ciò che restava della dubbia bellezza della Golosa.

Paul-Antoine si presentò all’indirizzo di Ivane per tre giorni e quattro notti senza mai essere ricevuto.

Alla quarta mattina inforcò il cappello e si diresse alla periferia ovest di Parigi, in direzione della pineta presso cui aveva visto le roulotte del circo l’ultima volta.

Lì non trovò che cani randagi, lacci di scarpe infangate e vecchi foulard: la compagnia doveva essersene andata e Ivane doveva averla seguita senza scrivergli nemmeno un biglietto, si disse. Rimase risentito per via di quel gesto poco riconoscente e non pronunciò fra sé e sé la terza delle tre frasi che lo avrebbero reso famoso in Francia per più di un trentennio: Ebbene, se lei non torna, me ne vado.

Ivane, naturalmente, non ritornò.

Al termine delle sei settimane d’attesa stabilite, Paul-Antoine avvolse in un fagotto lo stretto indispensabile e si risolse a lasciare la capitale: dal Moulin Rouge si era licenziato anni prima e non gli restavano copie dei manifesti a lui commissionati da rivendere, così come non gli rimaneva nulla dell’impiego di uomo‒sandwich abbandonato dopo l’estate, né in contanti né in cartelloni pubblicitari. A Parigi non possedeva più niente, se non un sigaro, qualche paio di camicie, un vecchio anello di famiglia e qualche benda per medicare eventualmente ferite poco profonde che gli fosse capitato di procurarsi. Così, comprò dei cappotti pesanti in previsione dell’inverno successivo e si accomiatò dal proprio arrondissement senza troppa nostalgia, non avendo né confidenti da cui separarsi né progetti per il futuro cui rinunciare.

Prima di salutare definitivamente la città, comunque, decise di ritornare ai margini della pineta che aveva ospitato l’ultimo sorriso di Ivane sotto il cielo della Ville Lumière.

Rimase a passeggiare nei dintorni della pineta per più di un’ora, come in attesa di un segno o di un’indicazione che potesse riferirgli da che parte si trovava adesso la giovinetta che egli aveva amato. Magari i pianeti sarebbero venuti in suo soccorso.

Dopo aver perlustrato il luogo in lungo e in largo, in effetti, il pittore si accorse di un braccialetto di spago che Ivane era solita portare al polso destro in ricordo di una lontana parente: stava sopra un cumulo di terra che sembrava essere stata vangata di recente.

Come mosso da un’intuizione terribile e lucidissima, Paul-Antoine prese a scavare a due mani il più addentro possibile. Non pensava che alle labbra di Ivane Duval, alle sue gonne colorate, al suo femore ancora intatto. Aveva in testa un’esplosione di musica e di paura, abbracciate l’una all’altra ed entrambe fastidiosissime. Ansimava e si rompeva quasi senza badarci le unghie, a furia di spostare quanta più terra possibile. Era concentrato e meticoloso come lo sarebbe stato un artigiano nel modellare un vaso di terracotta.

Finalmente si imbatté in qualcosa di duro e di freddo, che scambiò per un braccio. Constatando che era troppo corto per essere un arto, ne dedusse che doveva trattarsi di un collo. Del collo di Ivane, sibilò raggelando. Dello stesso collo che in certe giornate d’estate aveva stordito Paul-Antoine con il suo profumo.

Solo dopo aver scavato ancora a destra e a sinistra di quel macabro e isolato reperto, il pittore aveva disseppellito una scatola di latta stretta e lunga, finita lì chissà come.

Deluso e sconcertato dalle proprie convinzioni, quasi che si fosse aspettato di trovare là sotto il corpo di Ivane per intero, Paul-Antoine si era sollevato in piedi, si era spolverato via di dosso il terriccio e aveva scaraventato con la punta delle scarpe decine di pietruzze contro l’orizzonte.

Senza degnare di attenzioni la scatolina, aveva cominciato a misurare la pineta a grandi passi e non si era voltato indietro le spalle prima di aver percorso una manciata di chilometri, procedendo a zig‒zag verso il confine ovest di Parigi.

Della pineta cui Paul-Antoine Mureau aveva detto addio con tanto risentimento era poi stato fatto un cumulo e il terreno era stato dissodato in profondità: in quell’occasione, qualcuno più fortunato di lui aveva scovato il corpo della ballerina, in condizioni tali da non lasciare supporre neanche per un attimo il fascino ammaliatore dell’ormai ex Golosa. Scoraggiato e a tratti disgustato dalle conseguenze del ritrovamento, quindi, il malcapitato lo aveva destinato alla triturazione assieme all’humus del posto.

Nel settembre di un paio d’anni dopo, Paul-Antoine, ora residente il vicino a Strasburgo, ricevette via posta un’altra delle piante d’appartamento delle quali stava facendo collezione e ne baciò con devozione il terriccio, senza venire a sapere minimamente che proprio nel punto da lui sfiorato c’erano le labbra di Ivane Duval frantumate a dovere, e che la certezza granitica su cui egli aveva fondato un’intera esistenza si era silenziosamente trasformata in realtà.

Cosicché, Paul-Antoine Mureau aveva continuato a condire la propria vita dei medesimi e piatti stati d’animo che lo avevano portato lontano dalla capitale in una mattina d’inverno, mentre la sua storia cominciava timidamente a fare il giro della nazione.

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