CLESSIDRE

di Giorgio Bolognese

Scese dal letto a castello tenendo per mano il lupo rosa, il suo peluche preferito, nonché mentore e supereroe ufficiale in questa fase di scoperta estiva, perché se di solito lo lasciava sul cuscino a fare la guardia ai libri di scuola, quella mattina aveva il sentore che avrebbe avuto bisogno della sua protezione, o comunque della sua vicinanza, per dissipare quelle slabbrature di bruma con cui l’incubo appena concluso ritagliava il suo campo visivo, frammentandolo di scuro, aveva bisogno del lupo rosa per attraversare il corridoio e raggiungere il mare senza che i genitori si accorgessero del suo passaggio e fossero costretti a fingere di non litigare.

Scese la scaletta a pioli facendo attenzione a non pestare il corpo del fratello, che sicuramente dormiva smutandato sul lenzuolo stropicciato o, in ogni caso, con parecchia superficie carnosa visibile e ben irrorata, pronta a destarsi e a scattare sensibilissima verso i suoi piedini sbadati al primo contatto, perché se il rumore in cucina o forse in salotto era stato forte, sapeva che per svegliarlo occorreva uno stimolo tattile, uno stimolo anche minimo ma tattile, e solitamente, quando il temibile ricciolino rosso scopriva che era stato il fratellino effeminato a riportarlo nella realtà, non si faceva troppi scrupoli a vendicarsi, rilanciando lo stimolo tattile con una botta o due o tre, o peggio, con la morsa dello scorpione, per cui lo immobilizzava a terra stritolandolo tra gli stinchi, come aveva visto fare in qualche incontro di Tana delle Tigri, uno di quelli zeppi di fontane di emoglobina che lo costringeva a vedere, perché sentiva il dovere fraterno di fortificarlo in quanto non bambina.

Scese con cautela, non gli sembrava il caso di rischiare uno stritolamento da scorpione, nonostante il fratello usasse questo superpotere anche per fargli del bene, ad esempio per difenderlo dai ragazzini tamarri che allo stabilimento balneare lo prendevano in giro, in primo luogo per la sua fisionomia esile e gentile, e poi perché gli piaceva il rosa e perché con il rosa colorava la sabbia che metteva in clessidre fatte con la carta dei cornetti Algida, con cui dettava i tempi delle partite a biglie giocate con le femmine, che prendeva per le caviglie disegnando sulla spiaggia con il loro ridacchiante fondoschiena curve di piste quasi perfette impreziosite da piccoli soppalchi costruiti con le bacchette di bambù che crescevano dietro quella duna baluginante poco prima della pineta.

Iniziò a barcollare per il corridoio con gli occhi sparecchiati dal ricordo dell’incubo ancora banchettante sulla sua cefalea cronica, iniziò a barcollare sulla punta dei piedi scalzi, un po’ per non farsi udire dai genitori, un po’ per non tagliarsi con i frammenti di porcellana sparsi sul parquet di legno di cedro, il pavimento scelto dal padre, che non lo difendeva dai bulli perché affermava di essere pacifista, non un lottatore professionista di Tana delle Tigri come quel ricciolino rosso di suo fratello, ma capiva l’importanza delle clessidre e della sabbia rosa, e spesso lo aiutava a grattare via la materia in eccesso dalla carta dei cornetti Algida con cui facevano merenda da soli – chi è il mio bambino biondo? – gli diceva, e lui si apriva in un sorriso costellato di panna e cioccolato, e si lasciava accarezzare, per poi tornare a mescolare alla sabbia i pigmenti in polvere di Magenta, proprio come il sangue dei cadaveri dei soldati che la famosa battaglia mescolò alla terra.

Il padre era un uomo molto bello e anche un matematico e diceva che con i numeri si possono costruire tutti i mondi che si desiderano – anche mondi rosa? – gli aveva chiesto, pensando che in un mondo rosa il suo lupo si sarebbe sentito ben accetto, e forse anche lui – certo, di tutti i colori che vuoi, facciamo due tiri? – al padre piaceva il calcio e a lui in fondo non dispiaceva, si trattava pur sempre di un gioco, di uno spazio regolamentato, e questo lo rassicurava, si toglievano le magliette per segnalare la base di pali immaginari e si alternavano ai calci di rigore e quando nella clessidra cessavano di scorrere i granelli, il portiere andava a capovolgerla, lasciando al tiratore il posto in mezzo ai pali. 

Usavano le clessidre per segmentare il tempo delle cose che facevano insieme, perché così le situazioni e tutte le cause e tutti gli effetti che consentivano loro di vivere quelle situazioni, si condensavano alla massima potenza, diventavano creaturine rosa sospese a mezz’aria, come uccelli che volando controvento non riescono a muoversi pur battendo le ali e si fermano a intarsiare la volta celeste, e potevano allungare le mani verso quelle bestie, staccarle dal cielo e riporle con ordine nelle gabbie del loro piccolo zoo in porfido rosso.   
Tu e le tue stupide porcellane, chissenefrega se sono care! – il volume della voce della madre precipitava verso l’alto, mentre il fratellino effemminato, oltrepassato il salotto e giunto alla soglia della cucina, percepì una brodaglia bruna lambirgli la punta dei piedi – tanto te le regala quella rancida che ti scopi al CNR! – e strizzò la mano del lupo rosa – vuoi fare una piazzata proprio adesso che stiamo decidendo quella cosa, egoista schifosa?! – e vide pinne di squali bianchi spuntare all’orizzonte – egoista?! – la madre rise sguaiatamente – io sarei egoista, mentre tu fai il gigolò esteta raffinato e ti scopi la professoressa emerita in cambio di questa inutile roba da migliaia di Euro che non vuoi nemmeno vendere per la chemio del tuo bambino biondo?! – gli squali bianchi sguazzavano in quella brodaglia bruna – ti ho già spiegato che le prende all’outlet, non è così ricca come pensi, non può mica pagare le cure e poi te il bambino nemmeno lo volevi, non te ne è mai importato nulla di lui, nel cuore hai sempre avuto solo il ricciolino rosso del tuo primo matrimonio e, sai cosa, non sono nemmeno sicuro sia il caso sottoporlo a questa dannata chemio! – il fratellino effemminato, ormai al centro della stanza, immerse i talloni nella brodaglia bruna, lasciando che gli squali bianchi gli mulinassero attorno alle caviglie, come un’estroflessione naturale del suo mortifero cerchio alla testa, e guardò i genitori domandandosi se quella scena non fosse un surreale proseguimento del suo incubo, perché se i loro volti parevano terrorizzati, il volume della voce della madre divenne morbidissimo e ora precipitava verso il basso, fin quasi alle sue caviglie a spennellare di miele le candide pinne degli squali – amore, papà e mamma non stanno litigando – lui andò sulla terrazza, si tolse le mutande, infilò il costume da bagno, quindi svuotò il secchiello blu del fratello ricciolino rosso lottatore professionista e lo riempì con le clessidre incollate il giorno prima e lasciate fuori ad asciugare – stavamo apparecchiando il tavolo per la colazione – e riponendo nel secchiello blu un barattolo di sabbia rosa pronta all’uso fra le cosce del lupo mentore e supereroe, anch’esso rosa, vide il padre piegarsi e coprirsi il volto con le mani e rimanere in quella posa, come un uccello controvento o una creaturina rosa – e la teiera mi è scivolata di mano e – continuò a blaterare la madre, ma lui, infilato il braccio nel manico del secchiello, si tappò le orecchie e prese la via del mare.

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