Матрёшка (Matrjoska)

di Martina Peroni

Uno – раз

Non è il genere di cosa che solitamente fa papà. Il tratto distintivo che lo racconta più di ogni altro, più del suo modo di portare le basette, più del modo in cui fischietta al mattino e dell’odore delle sue sigarette, è il suo profondo senso morale.

«Mi devi promettere che sarai responsabile. La tuta, la mascherina. Non ne va solo di te. Intesi?»

«Intesi.»

«Mi servirebbe davvero dell’aiuto, dopotutto. Faremo più in fretta in due.»

Salire in macchina dopo settimane fa uno strano effetto, ma la riempie di gioia. Il riscaldamento nell’abitacolo la fa sudare sotto la tuta e gli strati di vestiario, e il papà non fischietta, forse troppo concentrato, ma è l’intera situazione a rappresentare una piacevole novità. Sa che è ingrato sentirsi in prigione mentre la gente, colpita senza apparente ragione dalla malattia, muore in breve tempo, ma Selena ha quindici anni. Si sente invincibile ma prigioniera, dopo due settimane di isolamento – le manca la scuola, le manca la danza, le mancano i pattini e le librerie.

Le manca Boris.

Tutto ha poco senso senza Boris. Persino la dača aveva smesso di averne, prima che lui facesse quella follia e smuovesse di nuovo la polvere in un turbinare danzante. Selena sa esattamente quanto tempo ci vuole per arrivare in auto, ha percorso quella strada centinaia di volte. Conosce ogni curva, la stortura di ogni albero a bordo carreggiata. Sa a memoria dove si trova ogni salto, ogni giunto di dilatazione, quali sono le peggiori spaccature nell’asfalto e le buche da evitare, come lo sa papà. La Mercedes fila liscia nella bruma del mattino, e lei non può non tornare a un pensiero felice. Una fantasia non sua, come lo spunto per un racconto.

Due – Два

«Non c’è nulla di poetico, Solniška. Solo un freddo dannato e tanti sguardi sospettosi.»

«È un’avventura.» Scrolla le spalle e sorride. «Se sapessi scrivere, ne farei un racconto.»

«Tu sai scrivere, raggio di sole. Non ti ricordi?»

Tre – Три

“E voi vivete stabilmente in campagna? Penso che d’inverno sia noioso.”

“Non è noioso se si ha da fare, e poi non è noioso stare con sé stessi.”

La professoressa proietta sulla lavagna luminosa le parole scarabocchiate con la grafia disordinata che Selena conosce così bene – biglietti di compleanno, segnalibri, annotazioni a margine su libri in prestito. Un sospiro, poi un silenzio a metà tra l’annoiato e lo scostante: è quello l’effetto che Boris fa alla classe. Il tipo smilzo, trasandato, che si cambiava in un angolo per evitare di mostrare la schiena sfregiata, lo strambo che scivolava con noncuranza dal russo all’inglese e che si nascondeva dietro i libri di testo non per chattare su Tinder o per una sessione di D&D ma per leggere altri mattoni, però era uno dei pochi a fumare e aveva quell’aria da duro, per cui non ce la fanno a odiarlo del tutto. E poi c’è Selena, Selena Ivanovna che stravede per lui e che nessuno riesce davvero a detestare, bella, educata, ricca, tranquilla. Selena che chissà cosa ci faccia in una scuola pubblica, Selena che prende sempre tutto sul serio e nessuno si sogna di schernirla, lei, perché passa gli intervalli a leggere. Sempre con Boris, anche quando lui fuma – lei si barda fino alle orecchie e gli si siede accanto, nascosta con lui dietro il muretto. Selena che nessuno mette in discussione, Selena la ballerina classica che scende con la stessa grazia da una Mercedes ogni mattina.

Selena che ha preso un noiosissimo lavoro di classe per la Giornata Mondiale della Terra come un dovere e ha scritto un racconto di tre pagine. La professoressa non lo proietta, ma elogia la ragazzina che, come da copione accade a tutte le ragazzine educate e composte, arrossisce e china la testa.

Put’ čeres dyerevo compare sulla lavagna per primo, un titolo ingrandito seguito da un testo sfocato, e al suo fianco campeggia una stellina. Selena non vorrebbe spiccare, non vorrebbe brillare. Vorrebbe confondersi, sparire come riesce tanto bene a Boris, invisibile, un libro in mano e una sigaretta che lei, invece, non oserà mai fumare.

Put’ čeres dyerevo. Chissà cosa le è venuto in mente, poi. Un ricordo d’infanzia. Τre pagine che nessuno leggerà mai, ed è una fortuna, perché la professoressa sceglie i più significativi tra i brevi componimenti che le hanno consegnato e li fa recitare ad alta voce. Il suo è troppo lungo, troppo personale, troppo sentito. Riceve la sua stellina e va bene così. È così stancante essere troppo.

È troppo bella, troppo buona per essere vera, Selena. Troppo buona per essere viva, se non fosse per Boris.

Boris, che è anche l’unico motivo per cui rialza la testa, schiantata dal peso di tutti quegli sguardi. Boris che legge Anna Karenina, e nessuno ci crede. La professoressa sistema gli occhiali, lo interroga, non riesce a concepire che in ottava un ragazzino trasandato e disadattato come Boris Koskov possa leggere Tolstoj. Lui, pacato, risponde a tutte le domande con calma, senza nemmeno allontanare i capelli troppo lunghi che gli pesano sulla fronte, si impigliano nelle ciglia. Selena lo sa che lui lo sta leggendo davvero, quel libro che la intimorisce tanto, che la sfida a fare lo stesso. Solo poche ore prima, all’intervallo tra la terza e la quarta le ha chiesto una cosa, prima di appuntare le sue parole in matita, a bordo pagina.

In russo e in inglese.

Quando te lo presterò, quando finalmente lo leggerai, vedrai che avevo ragione.

Su cosa?

Che avresti dovuto leggerlo prima. Lo vedi? Ci eri arrivata, ma non lo sai. Sono le tue parole che ho scritto, qui, quando parla di Kity. Che testa sei, Solniška. Sospira, la bacchetta con la matita. Se solo capissi di cosa sei capace.

Che testa che sei tu, Borja.

Boris risponde a ogni tranello, ci aggiunge del suo, con la solita indolente indifferenza che riserva al mondo intero, che lo difende e gli consente di attivare una sorta di modalità risparmio energetico e riservare attenzione solo a ciò che merita davvero. Selena non può fare a meno di guardarlo e finalmente sorride, come se si sciogliesse la tensione che quella maledetta stellina di fianco al nome del suo stupido racconto le ha propagato in tutto il corpo. Una sorta di fluido denso che si solidifica nelle vene e la rende perfettamente immobile, finché la magia, come al solito, la fa Boris. L’orgoglio caldo che si irradia dal centro del petto, sotto lo sterno, scioglie quel veleno troppo concreto e le raddrizza la schiena, si sporge per guardarlo meglio, come a cogliere il rapido guizzare azzurro degli occhi sotto la zazzera bionda. Scrolla le spalle solo alla fine, sincero. «Ho detto che lo sto leggendo, non che l’ho finito. Mi farò un’idea solo alla fine, ma non potrei dire che Tolstoj è davvero misogino, in quest’opera. Non è La sonata a Kreutzer. Kity è scialba, ma Anna… Anna è Elena di Troia, Anna è l’eroina che non vorrebbe essere, e se non è profondo questo… Non è che essere un personaggio non del tutto positivo significa non valere nulla, no? Altrimenti dovremmo prendere Dostoevskij e cestinare tutto Ricordi del Sottosuolo. Beh, a parte Liza. Forse. O è misogino anche lui?»

Ed eccolo, il suo Borja, che si incanterebbe se si fermasse a riflettere con quanta delicatezza in lui l’indolenza possa sconfinare nell’insolenza, o forse no, forse non gli importerebbe. Forse ci è già arrivato, perché è sempre così. Boris arriva prima, Boris che legge Tolstoj a tredici anni, e la cosa ancora più straordinaria è che la aspetta.

Due – Два

«Sì che mi ricordo. Prendevo sempre tutto sul serio, era una consegna del cavolo per la Giornata della Terra, tutti hanno disegnato o fatto un collage o scritto una “poesia”.» fa una smorfia mimando le virgolette con le dita. «Io sono sempre la solita. Ho scritto uno stupidissimo racconto di tre pagine.»

Boris aggrotta le sopracciglia e si volta a guardarla. Entrambi hanno fili d’erba tra i capelli: sembrano scuri tra quelli biondi di lui, mentre si fondono senza contrasto con il castano di Selena. «Non era stupido, Put’ čeres dyerevo. Affatto. E, per la cronaca, prendi ancora tutto sul serio.»

Selena lo spinge, accigliata. Una parte di lei, però, gioisce. Ricorda ancora il titolo di un suo banalissimo scritto di due anni prima. «Non è vero.»

«E infatti…»

«Boris, hai davvero fatto tutto questo per…»

«Mi annoiavo. Krasnoyarsk fa schifo, in estate.»

«Perché, in inverno…»

«Vero. Ma in estate è più facile. Non avrei retto a fare l’autostop a meno venti gradi.»

«Lo vedi che è un’avventura? Voglio scriverne.»

«Meglio di no, raggio di sole. Quando hai scritto Put’ čeres dyerevo forse il mondo aveva ancora speranze. Questo lo faresti finire male. Lo sfigato che si fa cinque ore di pullman e autostop probabilmente finirebbe sbranato dai lupi.»

Selena si tira su un braccio. «Pensavo che la sua amata sarebbe uscita a cercarlo di notte, e che si sarebbe persa, e che le loro anime si sarebbero cercate per sempr… Che cos’è quella faccia?»

«È esattamente la versione dark di Put’ čeres dyerevo o sbaglio?»

«Domani dovrai tornare a casa.»

«Stanotte.» la corregge Boris. «Ci vogliono cinque ore, e comincio alle sei al supermercato.» i mesi di giugno e luglio lo hanno visto impegnato come ragazzo delle consegne, imbianchino, giardiniere. Agosto è una pacchia: ha un contratto per un mese intero come magazziniere.

«Sei folle.»

«Avevo finito Cime Tempestose e non potevo non venire a dirti che per una volta avevi ragione tu.»

«Cosa?»

«Lei è una stronza.»

«Totale.» Selena si lascia ricadere, beandosi della presenza di Boris. I pullman non coprono l’intera tratta tra Krasnoyarsk e la regione rurale dove si trova la casa della sua famiglia, per cui lui ha dovuto sopperire facendo l’autostop. Ci ha scherzato su, dicendole che per una volta aveva vissuto un libro prima ancora di leggerlo – l’edizione economica di Kerouac è stato uno degli ultimi bottini che hanno reperito insieme prima che lei partisse – ma il gesto ha una potenza enorme. Dieci ore tra andata e ritorno per passarne insieme circa la metà, in un prato lontano da tutto, a parlare di un libro che, stranamente, lei ha letto prima di lui.

«Non è Anna e non è Madame Bovary. Non è nemmeno Emma. Non è Tess, non è… Eppure non riesci a smettere di leggere. L’ho iniziato ieri sera e l’ho finito stanotte. E sono partito. Dovevo.»

La magia, come al solito, pensa, la fa Boris. E non c’è insolenza, questa volta, solo la sua consueta, delicata e intensa indolenza mentre la sigaretta gli pende da un angolo della bocca. Non è più rivoluzionario come una volta, almeno per il mondo. Leggere Tolstoj e fumare fanno molto più effetto a tredici anni che non a quindici.

Per il mondo, ma il mondo a loro non è mai interessato.

«Però la parte che racconta di come loro due crescono insieme, si rinsaldano, si sfidano, si completano, duettano e si scontrano, si allacciano, si dilaniano, si tradiscono, si sfiorano, si trovano, si perdono, si amano, si feriscono, si annodano, si salvano, si accarezzano, si sbranano. Sono i peggiori nemici e i gemelli siamesi e gli amanti folli più… Più totali di cui abbia letto. Perché riescono a essere tutte queste cose insieme

Selena sorride. No, non è mai interessato davvero. «E se fosse successo un po’ anche a noi? Quel giorno della piscina, quel giorno della festa della Terra, e mille altre volte.»

«Tu non sei psicopatica.»

«E tu non sei così cattivo.»

«Vorrei leggere Put’ čeres dyerevo, sai? Lo hai scritto pensando a questo posto, no? È qui che è successo. La casa di cui parli, quella che… Quella a cui pensi ancora prima della tua vera casa. È la dača, vero?»

Selena annuisce, distoglie lo sguardo. «È infantile.» si schernisce. «È solo la storia stupida di una ragazzina stupida che si perde nel bosco.»

«Però nel bosco c’è una via

«Quella Selena era ancora un raggio di sole, no? Manca il fantasma alla Wuthering Heights.»

«Non ti ci vedo come Cathy.»

«Non ti ci vedo come Heathcliff.»

«Se fossi Heathcliff tornerei qui in Maserati per puro principio.» finalmente Selena sorride in risposta. Nei capelli ha spighe di grano e fili d’erba.

«Fammi vedere, Solniška. L’hai trovata prima tu, quella via nel bosco. È il tuo posto. Sono qui per questo.»

Quattro – Четыре

Dopo anni in classe insieme, resta loro ancora tanto da dirsi. È il vantaggio di chi legge tanto, non esaurire mai davvero gli argomenti, avere sempre una riserva capace di spalancarsi. Sembra quasi assurdo che non gli abbia ancora parlato di Daurskoye, del fiume e del legno, del bosco e del grano. Accade per caso un pomeriggio in cui guardano la libreria sdraiati al contrario utilizzando il catalogo di archiviazione digitale che Selena ha sul tablet. Partono da Thoreau e dal suo sogno folle, che richiede un coraggio che fa tremare persino le loro ginocchia da tredicenni. Walden porta ai boschi e i boschi la portano alla dača, al modo in cui al tramonto, che in estate arrivava straordinariamente tardi, la polvere danza dorata nell’aria. Una sensazione di quieta attesa, come se ogni granello fosse un brillante d’altri tempi, coperto da una patina che lo rende inaccessibile e alieno. Ogni tanto fantasticava su portali per altri mondi. Ogni tanto non era nulla, era solo una vecchia, piccola casa di legno e quello era il momento in cui rimaneva sola – in cui la mamma faceva il bagno a Nadja e papà leggeva in veranda. L’ora del giorno in cui era attanagliata da un senso di malinconia inspiegabile per una bambina, una sensazione che la faceva sentire sbagliata, diversa, troppo silenziosa, troppo tutto. Non importava quanto i giorni alla dača fossero quelli dell’erba brillante, dei soffioni, degli scoiattoli e dell’odore ferroso dell’acqua sui sassi – quando il sole tramontava, lei tornava a casa. La luce faceva la sua magia sotto la finestra spiovente e sospendeva ogni cosa, un movimento che aveva un che di stasi, un’assurdità che lei da bambina arrivava a tratti a percepire, ad afferrare, ma non avrebbe mai potuto spiegare.

«Come faccio a raccontare il pulviscolo, Borja?» domanda, sdraiata sul letto con la testa a penzoloni.

«Kafka racconta di un uomo scarafaggio.» Boris allunga le braccia dietro di sé, andando a sbattere contro l’armadio. Non ha ancora preso del tutto le misure con il picco di crescita che lo ha trasformato da ragazzino mingherlino a preadolescente fuori scala, e di sicuro non perderà il vizio di passare i pomeriggi sdraiato sul parquet della stanza di Selena, di cui ormai conosce a memoria i punti caldi, quelli su cui lei atterra danzando scalza.

«Kafka aveva qualcosa da dire.»

«Non raccontare quello, allora. Non adesso. Raccontami la dača. Mi piacerebbe pensarti lì.»

«Mi piacerebbe averti lì.» sospira Selena. «Agosto è lunghissimo.»

«Potrei venire in autostop.»

«Borja…»

«Prima o poi leggerò On the road e vorrò fare pratica.»

«Ce l’ho!» Selena sventola il tablet. «Papà lo adora. Posso prestartelo.»

«No.» non c’è solo amarezza nella voce di Boris, ma anche orgoglio. Allunga le braccia e afferra le dita di lei, sbilanciandola, per comunicarglielo. «Lo sai. Voglio averli, i libri che leggo.»

Era sempre stata la sua fissa. Niente biblioteca per Boris, povero in bolletta. Niente strade facili per libri gratis, niente booksharing o cose del genere. Anche se aveva voluto dire lavoretti dopo scuola sin da quando aveva otto anni e copechi infilati a poco alla volta nella bottiglia del latte su cui, con la grafia incerta di un ragazzino che scrive sul vetro, aveva scarabocchiato un books – knighi col pennarello indelebile. Aveva voluto dire brutte edizioni ingiallite e puzzolenti mercatini dell’usato, e gelide bancarelle all’aperto e domeniche a svuotare i solai dei vicini per cinque rubli e un’edizione sgualcita di Shakespeare che avevano aperto, pieni di stupore, a dieci anni per leggere gli amori proibiti di Romeo e Giulietta. L’orizzonte di Selena era un viaggio in Italia e vederlo per davvero, quel balcone, un’assolata estate imprecisata della sua infanzia. Quello di Boris, un’edizione illustrata a china e il realismo con cui aveva infranto il sogno di lei – lo sai che quella casa è un falso, vero?

Boris chiude gli occhi e lei lo osserva finché il sangue non le va alla testa e deve girarsi sulla pancia. «Raccontami la dača, Selena. Voglio immaginare di arrivare lì a piedi, con lo zaino.»

«E tu raccontami che libro avrai dentro.»

«Ricattatrice.»

«Racconti meglio tu.»

«Non scapperai per sempre.»

Tre – Три

Selena riporta a casa i due fogli di Put’ čeres dyerevo infilandoli con cura dentro un libro. Non è nulla, quel racconto. Non ha mai pensato di poter scrivere davvero. Era più una sfida alla Boris. Forse era una sfida a Boris e basta. Non aveva potuto scappare per sempre, aveva ragione lui. Ha sempre dannatamente ragione lui.

Non agiva quasi mai d’impulso. Eppure aveva preso una stellina, il suo racconto. Non le dispiaceva nemmeno la professoressa, ma non sa se è pronta per farlo leggere a qualcuno.

A qualcuno per davvero. Non come un compito. Come parole scritte su carta. Come un racconto. Come un libro.

Ci pensa, lentamente, mentre disfa lo zaino ed estrae i libri e il tablet. Si ostina a scrivere ancora a mano. Certe cose soffocano, in digitale. Hanno bisogno della concreta limitatezza del foglio per respirare. E poi è naturale. Carta, fibra, corteccia, legno, linfa, bosco.

Put’ čeres dyerevo.

Per farlo leggere a qualcuno. Per davvero.

No, forse non è pronta, ma da qualche parte sa che prima o poi lo sarà. Quando siede alla scrivania, lentamente, con difficoltà, lo riscrive su un foglio protocollo. Una facciata è ricoperta da caratteri cirillici, l’altra, sofferta, faticosa, è in inglese. Stentata ma panciuta, in penna rossa, la sua grafia riporta in cima il titolo The Way Through The Woods.

Uno – Раз

Trasportare scatoloni doppiamente bardata, contro il freddo e contro la contaminazione, si rivela una fatica, ma fare attività stancanti in pieno inverno è il primo modo per non congelare. E se non si ferma il sangue nelle vene – perché è quello che sembra accadere in Siberia quando fa freddo sul serio, materia densa e pesante in ogni fibra intorpidita – non si fermano nemmeno i pensieri. Ed è un bene, perché è già tutto troppo fermo. Che il mondo stia per finire lo si capisce dal fatto che il pulviscolo sia totalmente incapace di danzare come ha sempre fatto. Selena non sa se sia una legge della natura, una regola non scritta della dača o solo qualcosa che esiste nella sua mente di bambina, ma è una delle sue certezze sulla vita. La polvere dorata si incendia al tramonto, Boris porta i capelli troppo lunghi e sicuramente ha già letto metà dei libri che lei gli propone, lo spazio tra gli incisivi di Nadja non tornerà a posto da solo, Emily è la più interessante delle sorelle Brontë e il beef stroganoff fa schifo. Pochi punti saldi. Ma in quell’apocalisse statica e cattiva tutto sembra sovvertirsi. La connessione internet di Boris fa più schifo del famigerato manzo, Nadja ha messo l’apparecchio e nessun granello vortica sotto la finestra.

Meno male che rimangono salde perlomeno le certezze sulla letteratura inglese. Sospira, decisa ad essere d’aiuto a papà, che sta imballando i progetti rimasti in casa quando l’hanno lasciata in fretta e furia. Erano ripartiti non appena era stata indetta la quarantena, temendo che una volta chiusi i varchi presidiati dalle autorità non avrebbero più potuto ricongiungersi con la mamma e Selena a Krasnojarsk. Tubi, tavole, plottaggi e materiale da collaudo erano rimasti letteralmente sparpagliati sul tavolo, segnale della disperata urgenza che aveva messo in moto papà. Scherzava sempre sul fatto che, in quanto ingegnere, il suo cervello non fosse altro che la riproduzione di un sistema binario di impulsi primari da combinare in maniera complessa per il puro gusto di farlo. Sembrava che, dopotutto, persino uno specialista in impianti energetici funzionasse come le persone normali.

Fight or fly – Borja, la tua maledetta fissa per l’inglese e un fiotto di mancanza la colpisce in pieno petto, facendola barcollare all’indietro. Papà pensa sia il peso dello scatolone e glielo toglie di mano.

Put’ čeres dyerevo.

Quando il mondo finisce ti ritrovi a contare le occasioni in cui avresti voluto essere più. E non importa se in vita tua hai sempre sofferto l’essere troppo, quando troppo non si rivela abbastanza fa solo male doppio.

Più coraggioso, più paziente, più forte, più tenace, più affettuoso, più capace. A schiantarsi con violenza contro lo sterno di Selena è l’idea che non hanno mai davvero parlato di Put’ čeres dyerevo e che forse ora non lo faranno più. Che Boris non ha mai visto danzare la polvere e che se solo lei avesse avuto l’ardire di portarlo a casa, quella sera in cui aveva affrontato dieci ore di viaggio solo per dirle che aveva ragione su Catherine Earnshaw – e un mucchio di cose ben più importanti – gliela avrebbe mostrata e lui avrebbe capito, lui che sì, era in grado di scriverne come Tolstoj e Dostoevskij e forse un pochino come Hardy, anche, ora lo sa. Non sa se lo rivedrà davvero, Borja, o se questo mondo del cazzo malato e contorto le renderà possibile solo strappare i minuti di connessione che il regolamento condominiale concede ai Koskov per l’uso della rete comune, se esisterà ancora una realtà in cui rotolare in un prato o saltare sui giunti caldi del pavimento e scrivere poesie e dirsele a voce, perché vaffanculo i drive esterni e le memorie digitali del cazzo e le piattaforme di storage, lei vuole un mondo in cui se ti aggrappi a qualcosa è il finito, fallibile, indefinibile pulviscolo dorato che danza in spirali che conosce solo lui. Non è un sistema binario che vuole, non è il controllo dei contatti e la profilassi preventiva e la decontaminazione – no, lei vuole contaminarsi e infilarsi nel bosco fino a non potersi più districare, i rami nei capelli e i palmi graffiati e…

«Lenočka, va tutto bene?»

Annuisce. Sta pensando a Put’ čeres dyerevo. Sta pensando a un foglio protocollo, dieci ore di autostop e al coraggio che non ha avuto.

Due – Два

Selena salta dalla finestra per salutare Boris quando lui lancia contro il vetro un paio di ghiande come convenuto. I capelli sciolti le volteggiano alle spalle nella brezza tiepida di fine estate mentre lo raggiunge alla staccionata.

«Hai un che della Catherine, così.»

«Zitto, che tra un po’ quei capelli sono più lunghi dei miei.» Se lei è Catherine, lui è Heathcliff? Beh, sicuramente non Linton. Nemmeno in un’altra vita potrebbe essere un Linton. Ma le implicazioni di quella continua identificazione, di quello sparire e ritrovarsi – fratelli, amici, compagni di letto, nemici mortali, amanti, partners in crime, pilota e copilota, duetto di eroi – tra le pagine sono semplici, naturali ma non scevre di interrogativi.

Non per quella sera, però. Definire non ha senso, quando l’orizzonte è la letteratura intera, è Achille e Patroclo e Cathy e Heathcliff, Boris e Theo e Holden e Phoebe. È Sal e Dean, è Frodo e Sam, è Hajime e Shimamoto, Beverly e i Perdenti, Narciso e Boccadoro, Tamar e Assaf, Jo e Laurie, Robbie e Cecilia, Hans e Konradin, Byron e Shelley.

Non ha davvero senso chiederselo. Hanno entrambi i capelli troppo lunghi ma i loro colori non si mescolano quando Selena gli butta le braccia al collo. Nulla importa. Non le definizioni, non le unità di misura, non i giorni che mancano a un ricongiungimento definitivo.

«Ehi, raggio di sole, ci rivediamo presto.» Boris indugia, quando si accorge che lei piange la stringe brevemente. «Una spolverata di melodramma come sempre. Secondo me non ci separano più di quattro libri.»

«Sì, certo. Se l’unità di misura è Il Conte di Montecristo, forse.»

«Potrebbe. Sai che i francesi mi stanno antipatici.»

«Borja…» Selena si stacca, si asciuga gli occhi. «Metti anche questo nella lista, ok? A costo di farli diventare cinque.»

Un foglio protocollo piegato in quattro. Inchiostro rosso e inchiostro nero, caratteri cirillici e latini, incerti.

«Oh, Solniška… È quello che penso?»

 «Tu pensi troppo.»

«Senti chi parla.» Boris fa una pausa, poi stringe al petto le pagine. «Grazie. Ti prometto che sarà esattamente quel che farò. Sentirò chi parla. E… Selena…?»

«Sì?»

«Grazie della fiducia.»

«Non potevo scappare per sempre. Ora… Non farlo tu, ok?»

Uno – Раз

La polvere non danzerà mai più, e qualcosa di lei lo sa, come sa che Boris lo ha letto, quel foglio protocollo, lo ha letto e non ha detto nulla, perché aveva capito che era troppo suo. E che ci sono regali incommensurabili che l’unico modo per poter accettare è lasciarli liberi di espandersi oltre ogni confine, ogni definizione.

Tutto ciò che riguarda Boris ha quella qualità, e lei lo ha capito ora che ha quindici anni e il pulviscolo danzante è un po’ come Santa Claus. Una storia che si è raccontata – e che lo abbia fatto da sola poco cambia, vuol dire semplicemente che è sempre stata un po’ più inaccessibile, un po’ più distante – per rendere più dorato qualcosa. Perché il bosco facesse meno paura, una finestra illuminata sempre in vista.

«Selena, è l’ultimo. Poi ripartiamo.»

La ragazza annuisce, lo sguardo fisso dove l’estate prima ha salutato Boris. Nessuno lo ha mai scoperto. È rimasto il loro segreto. Un giardino segreto. Appena oltre il limitare della proprietà, il grande assente. Il bosco.

Put’ čeres dyerevo.

Un sospiro. C’è solo neve, in quella stagione. Non ha senso parlare di strade nel bosco, ora. Si vedrebbero subito. Si vedrebbero anche troppo. Non ci sarebbe alcuna sfida, alcun incubo. Alcuna magia.

Non ci sarebbe alcuna storia.

Due – Два

Boris trascorre le cinque ore di viaggio con il rumoroso, vivo foglio protocollo in mano. Non se ne separa, come a saggiare la pressione della mano di lei, il modo in cui la penna incide la carta sulle gambette più lunghe delle lettere, come a registrare con una sorta di tenerezza il modo incerto con cui utilizza i caratteri latini.

Glielo dico da sempre, di imparare l’inglese, ma lei niente. Saprebbe quanto suona meglio. Heathcliff. Ne coglierebbe la poesia.

Sospira. Se la ricorda, Selena da piccola. Un borsone da nuoto più grande di lei, pieno di accessori alla moda, sgargianti. Come a convincerla che nuotare era fantastico. Che ce l’avrebbe fatta. Quando lei voleva solo qualcuno che le dicesse che era ok non farcela sempre. Selena ai margini con un libro in mano, Selena troppo quieta, troppo bella con quei capelli troppo lunghi, pesanti per il suo collo esile. La Selena che aveva seguito la via attraverso il bosco. Troppo inquieta, troppo intrepida, troppo pura.

Eppure se anche potessi evitarti quella paura e quello smarrimento non lo farei, pensa. Non ti toglierei la possibilità di dubitare di te. Non ti toglierei la curiosità di spingerti oltre in nome di una sicurezza priva di ogni brivido.

Priva di ogni splendore.

La prima volta, quando termina, si asciuga gli occhi. Il racconto è quieto, non c’è pathos esasperato. Non ci sono le esagerazioni e le ingenuità adolescenziali che si aspettava. C’è una resa che è al tempo stesso lo smarrimento più spaventoso e la tenerezza più sentita.

Non la proteggerebbe da nulla. Lascerebbe che si ferisse contro i bordi affilati del reale. Lascerebbe che si scontrasse con le peggiori paure e i pensieri più distorti. Farebbe in modo che si perdesse ancora nel bosco per inseguire la traccia lontana di vecchi binari.

Poi, però, andrebbe a prenderla.

Uno – Раз

Tre ore in un senso. Tre ore nell’altro. La tuta pesa. Il cuore di più.

Pensava sarebbe stato un bel diversivo. Tornare. Aria fresca. Nostalgia. Come se non lo sapessi.

Non piangere finché non si trova in auto con papà è una sofferenza. Boris la ha sempre presa in giro per l’incidenza dei suoi momenti emotivi. Il piantino facile, lo chiamava. Il complesso di Antigone. L’anima da Madame Bovary. Buongiorno, raggio di sole.

Vorrebbe solo – che bello, il modo di dire scoppiare in lacrime. Argini che si rompono, sentieri che si perdono, rami che si spezzano e resta solo acqua salata e fiato in frantumi e non importa se non danza più niente. Ha letto Anna Karenina e un mucchio di altri libri. Non ha ancora letto On The Road. Soprattutto, non ha più scritto. Non che Boris non la abbia più sfidata – rimane tutto nei confini di Put’ čeres dyerevo. Che poi era la storia di come i confini si perdevano. Di come una fugace visione che si rivelava solo polvere e oro diventava un territorio di nessuno, mezzo sogno e mezzo incubo in grado di respirare, fagocitare. Inghiottire o cullare, spavento e meraviglia, protezione e accoglienza e terribile, implacabile legge del più forte. La natura la avrebbe mangiata, ma lei sopravvive.

Pura, indifesa. Vera. Spaventata e coraggiosa.

La sua protagonista senza nome non si fa schiacciare dal meccanismo e tiene la testa alta. Non soccombe all’incoscienza, persa e ritrovata per sempre nell’odore degli aghi di pino, dell’acqua ferruginosa e del sole. Non soccombe e si rende conto che si è scritta per essere vista. Per essere letta. Si è scritta per Boris e per Boris si è tradotta, si è affidata, si è abbandonata. Si è proiettata. Va bene.

Va bene così, e quando vede il suo viso, dall’altro lato della strada, dietro il finestrino della Lada rubata a sua madre e la mascherina d’ordinanza, il cuore fa il solito scherzo. Il battito salta. Vorrebbe saltare anche lei, una frazione di secondo, mancanza solida e concreta. Assenza presente. Lui scrive col dito sul finestrino, l’abitudine vietata e segreta che ogni pomeriggio di pioggia ha riversato su ogni ragazzino in ogni tempo e in ogni luogo, e Selena finisce di scaricare. Non osa guardare in quella direzione. Tempo zero e sparirà. È solo questione di tempo. È solo suggestione. È solo immaginazione. Una danza segreta nel tramonto. È solo per l’oro nella polvere. Solo per…

Per smettere di scappare per sempre.

Sorride. Forse lui è lì. Forse no. Ma c’è lei, e tanto basta. Per un attimo c’è un vorticare dorato che profuma di legno, di acqua ferrosa e di calze di lana. La danza è quieta, tutto si ferma. Si incastra. Scatta.

Zero.

Ноль

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