Mala acqua

di Alice Piras

C’era solo una cosa che per Catalina era infinito e immortale: il fiume che scorreva di fronte alla sua casa. L’aveva visto la prima volta da bambina, dai vetri della finestra sgangherata dove abitava, in braccio a sua nonna. Quel corso d’acqua aveva sempre avuto qualcosa di magico, misterioso e inquietante allo stesso tempo. Per questo Catalina si rivolgeva a lui come a un padre; per ogni domanda, dubbio e decisione da prendere sulla vita. Quel fiume che l’aveva vista nascere era il custode delle sue lacrime interminabili.

Catalina odiava la vita, il mondo e più di tutto la felicità altrui. Era cresciuta triste e sola con la nonna Melina, una donna cattiva nell’animo e ultima di sette figlie, ancora tutte vergini quando nacque: era stata scelta dalla sorte per diventare coga. Da lei aveva ereditato la cattiveria e il dono per le arti magiche.

La madre di Catalina era morta mentre la partoriva, suo padre si era tolto la vita poco dopo, impiccandosi al lampione di fronte al fiume. Quella fu la prima morte di cui l’acqua maledetta fu testimone. Catalina si era sempre sentita inutile, trascurata e poco importante. L’unico suo desiderio era poter essere una coga, come sua nonna, che da quando aveva memoria le ripeteva seria e convinta:

«Quando compirai dieci anni diventerai come me.»

«E come?» le chiedeva lei, incuriosita.

«Grazie all’unguento magico!»

«Dove si trova?»

«Ogni cosa a suo tempo, Catalina.»

Melina nella sua testa aveva già tutto programmato: arrivare in cimitero di venerdì notte, tenere a bada lo schifo durante il dissotterramento del cadavere, che doveva essere abbastanza recente, visto che avrebbe dovuto asportarne il grasso. Per il sangue della ragazza vergine avrebbe pagato, era pieno a bizzeffe di giovani pronte a venderlo per qualche soldo. Doveva solo stare attenta e controllare personalmente la loro purezza, perché la virtù del sangue era fondamentale.

In questo modo avrebbe avuto tutto l’occorrente per l’unguento miracoloso, quello che spalmato sotto le ascelle e sulle piante dei piedi avrebbe fatto diventare Catalina la coga più potente di tutti i tempi. Questo era il destino che lei aveva scelto per la nipote, dal momento in cui l’aveva cresciuta e accudita come una figlia, vista la malasorte dei suoi genitori.

Niente e nessuno avrebbe impedito a quel destino di diventare realtà.

Catalina era l’unica bambina che si azzardava a fare il bagno nel fiume. L’acqua era sempre torbida, scura e profonda. Neanche un pazzo avrebbe permesso ai propri bambini di immergersi, ma lei era figlia di nessuno da sempre e mentre stava in ammollo in quelle acque putride si sentiva a casa, ripeteva mentalmente gli incantesimi che le insegnava sua nonna e malediceva tutta la gente che passando la osservava e le sparlava dietro.

Quando rientrava a casa, con il veleno in corpo, chiedeva a Melina di fare qualche “mazzina”, indirizzata a tutte quelle persone che l’avevano osservata con occhi giudicanti, al fiume.

«No, bella mia. Le fatture ci danno da mangiare e io non rischio il mio lavoro per i tuoi capricci!»

Catalina aveva provato a intagliare nelle cipolle delle forme umane e a conficcarci gli spilli, come faceva Melina. Ma era tutto inutile. Quelle facce odiate le rivedeva sempre. Le ricordavano quanto fosse sbagliata, orfana e nipote di una strega che l’avrebbe trascinata nel suo delirio.

La cosa che più le faceva male era la consapevolezza di essere condannata a una vita di solitudine, perché lei non aveva la croce pelosa sulla schiena come sua nonna, non era stata prescelta per diventare coga. E come le ripeteva sempre Melina, lei doveva guadagnarsi quel privilegio che permetteva di determinare le sorti degli altri, di decidere chi meritava una carezza e chi una coltellata: dopo l’incantesimo avrebbe dovuto destinare la sua vita alle cogas e ai loro interessi, rinunciando per sempre all’amore di un uomo e a diventare madre.

I suoi desideri avrebbero cessato di esistere e dopo la morte di Melina avrebbe avuto solo lui a tenerle compagnia: il fiume, con quell’acqua presagio di morte.

Il tempo passava lento, scandito dal rumore dell’acqua nera che cambiava di livello in base alle stagioni. Il cuore di Catalina aveva lo stesso colore, ogni tanto le sembrava persino di sentirlo galleggiare, in tumulto, dentro la gabbia toracica.

Ormai sulla carta era diventata strega, dalle mani di sua nonna era scaturito l’unguento che l’aveva consacrata coga. Ma Catalina sentiva di non avere nessun potere, la sua anima palpitante le apparteneva ancora, il diavolo non era riuscito a impadronirsene.

Fu proprio al fiume che lo vide per la prima volta. Lui aveva due occhi dolci e un sorriso immenso, che l’accoglieva tutta. Non la guardava come gli altri, con aria disgustata. Sembrava incuriosito, interessato a lei, bello.

Allora Catalina cominciò a riempirsi di una strana euforia. Sentiva la pelle d’oca, nonostante fosse appena esplosa l’estate. Passava intere giornate fuori casa a vagare per le strade, cercando quegli occhi ovunque.

E Melina, con lo sguardo veggente, si accorse che la nipote stava cambiando. Si stava aprendo a quel sentimento chiamato amore, che in casa sua non doveva entrare.

Il ragazzo che senza saperlo si era intromesso tra nonna e nipote si chiamava Carmelo. Figlio di povera gente, con la sua bellezza, i modi gentili e il buon cuore che da sempre lo contraddistinguevano si era fidanzato con Florinda, la ragazza più ricca del paese, di famiglia importante.

Non si spiegava come mai, però, ogni volta che incontrava quella ragazza così scura, secca e con quegli occhi che diventavano due fessure quando li puntava su di lui, il suo cuore cominciava a battere all’impazzata. L’immagine di Florinda spariva dalla sua mente e per molto tempo continuava a pensare a lei, Catalina, che dal primo giorno l’aveva stregato.

In qualche modo la piccola coga che era dentro di lei aveva iniziato a dare dei segnali. Catalina non era bella, parlava poco e la più grande emozione che suscitava nelle persone era la paura.

Nonostante questo era riuscita ad avvicinare Carmelo, un uomo promesso a un’altra, senza fare assolutamente nulla.

Aveva capito che il potere della coga saltava fuori solo quando desiderava qualcosa con tutta se stessa. E adesso voleva Carmelo, aveva voglia di portarlo via a quell’altra, lei che non aveva mai avuto nulla. E nessuna promessa fatta a sua nonna l’avrebbe fermata.

Mentre si immergeva nell’acqua, pensando alla prossima mossa da fare per prendersi quello che voleva, il fiume la avvolse in un abbraccio materno, cullandola con i suoi flutti delicati.

Le stava dando il suo consenso.

Lo spago che Catalina si procurò era rosso. Lo utilizzò tutto per creare molteplici nodi con cui condannare Carmelo. A mano a mano che i nodi aumentavano il ragazzo si avvicinava sempre di più a a lei, sino a quando Catalina se lo ritrovò fuori di casa, con il fiume alle sue spalle che sembrava spingerlo verso l’ingresso.

Catalina lo osservava dal vetro della finestra, con gli occhi stretti come spilli.

Quello che non sospettava era che sua nonna aveva iniziato a sciogliere quei nodi d’amore che lei con tanto impegno aveva creato. Quando vide Carmelo e Florinda mano nella mano, che passeggiavano per il paese come una cosa sola, Catalina capì che qualcosa era andato storto.

Corse a casa e si mise subito a cercare lo spago. I nodi non bastavano, doveva farne degli altri. Ma quando lo trovò rimase sconcertata: era completamente liscio, senza più neanche un nodo. Capì subito che l’artefice di tutto era sua nonna: aveva sciolto quei nodi che simboleggiavano il legame che lei stava creando con Carmelo, l’amore che si stava costruendo.

Quell’amore Melina gliel’aveva tolto prima che nascesse, come un neonato strappato alle braccia della madre.

E allora lei, a cui era stato sempre negato tutto, persino l’affetto di una mamma, lei che aveva ricevuto solo il disprezzo della gente, la cattiveria di sua nonna e niente più, lei che ormai aveva il cuore totalmente spezzato per quel presagio di felicità che Melina aveva distrutto, prese una decisione.

Quella stessa notte l’orologio segnava mezzanotte in punto quando Catalina trafisse il cuore di sua nonna mentre dormiva, con il coltello che aveva passato ore e ore ad affilare.

Smise di pugnalarla soltanto quando la lama si staccò dal manico. Adesso erano uguali, entrambe con il cuore a pezzi.

Le restanti ore notturne le servirono per trascinare il corpo di Melina sino al fiume, assicurarle due grandi pietre alle caviglie e buttarla nel punto più profondo di quell’acqua che lei conosceva così bene.

Era l’alba quando rientrò in casa. Dal vetro della finestra, come un deja-vu, osservò il fiume con sguardo riconoscente. L’aveva salvata, era sempre stato lì per lei.

Finalmente era libera. Le sembrava di essere di nuovo bambina, sola al mondo, dentro gli occhi quella distesa d’acqua, cattiva come lei, che scorreva. La mala acqua che nascondeva il suo peccato mortale.

Il suo cuore di coga si era placato e Catalina per la prima volta sorrise.

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