I riflessi

di Federica Ateri

La luce filtra dalla finestra attraverso i fori della tapparella che è stata abbassata la sera prima da mamma, lasciando dodici righe di buchini, a partire dall’alto. Questo segnale è lampante: una nuova giornata sta iniziando. Che magiche figure si disegnano sulla scrivania e sulla superficie del muro opposto rispetto a quello in cui è collocata la finestra! Mi sembrano delle spade sferzanti che tagliano le cose a metà, anche se poi, ogni mattina, alzandomi dal letto, controllo meticolosamente gli oggetti e li trovo tutti intatti. Starei ore a guardare l’inclinazione del fascio di luce che cambia e si sposta di alcuni centimentri, facendoti scoprire dettagli che erano fino a poco prima immersi nella penombra della stanza. Ognuno piano piano entra in scena, come sul palcoscenico di un teatro, illuminato dall’occhio di bue della finestra.

Un grido improvviso mi distoglie da questo scenario e mi ricorda che è il momento di abbandorare il comfort della mia cameretta. Mi alzo, mi allungo, proprio come fa il mio cane: ogni giorno, prima mi stiracchio in avanti e poi all’indietro. Temo che se non lo facessi, qualcosa potrebbe andare storto. Trovo i miei vestiti sulla sedia: dei jeans e una polo, entrambi senza etichette perché mi causano una grande irritazione, simile a un dolore. Arrivo in cucina e trovo pronto sul tavolo il the al limone con la fila di otto biscotti e, di sottofondo, l’inconfondibile sigla del telegiornale mattutino. Mi fa svegliare con una strana sensazione addosso, una sorta di agitazione che mi innervosisce un po’ invece di darmi la giusta carica per affrontare una giornata scolastica. Col tempo però, mattina dopo mattina, mi sono abituato e so che dopo la musichetta ansiogena e le parole veloci che si collocano al di sotto della mia soglia di attenzione, partiranno i cartoni animati. Ne inizia uno in cui c’è un animale, un papà, che racconta delle storie con una morale ai suoi figlioletti: ogni mattina nelle sue storie qualcuno si caccia nei guai e successivamente c’è qualcun altro che lo aiuta a trovare una soluzione. Che bello se anche la vita andasse davvero così! La musica di questo cartone animato è molto nostalgica, triste, drammatica in certi punti e anche questo non contribuisce a rinvigorirmi e ad aumentare il mio desiderio di iniziare con energia una nuova giornata di lezioni. Il motivetto della sigla, anzi, mi rimane in testa e continuo a canticchiarlo anche mentre mi lavo i denti: cinque spazzolate per ogni arcata, come mi hanno insegnato da piccolo. Mamma mi aiuta a con i capelli arruffati perché sa che li terrei allo stato brado se mi lasciasse l’opportunità di scegliere: sento i denti affilati del pettine che mi sfiorano la fronte e mi sale un brivido lungo tutto il corpo. Per fortuna la tortura dura poco e si parte: direzione scuola.

Il tragitto in auto è breve, lo zaino è molto pesante. Raggiungo i miei compagni e sento una sensazione di disagio, all’inizio. Soprattutto se loro sono già in gruppetto, io arrivo dopo e c’è un attimo in cui tutta l’attenzione è puntata su di me, proprio come quando il fascio di luce faceva entrare in scena gli oggetti nella mia cameretta, e sento molta vergogna addosso. Quando mi hanno spiegato le emozioni, questa l’ho capita bene perché la provo spesso.

Inizia la prima ora di lezione, ognuno si deve sedere al proprio banco, mi sento più al sicuro qui: tutti hanno il proprio posto e le regole sono uguali per tutti, chiare e definite. Sento però una sensazione di calore addosso, nella zona del collo e cerco di non farci caso. Presto la massima attenzione possibile alla spiegazione della maestra: è una lezione di italiano, una delle materie in cui vado meglio e l’insegnante sta leggendo un brano, al termine del quale ci farà delle domande. Che voci buffe possono uscire dalla bocca della stessa persona! Si possono distinguere bene i diversi personaggi perché la maestra sembra un po’ anche un’attrice quando ci legge i brani. Sono divertito da questo racconto, anche se qua e là mi perdo alcuni passaggi e a volte sono così attento alla sinuosità dei suoni di certe parole, che mi sfugge il significato dell’intero testo. Sarei facilitato se ci fossero delle immagini esplicative e se potessimo disporre del libro anche noi, in modo da poter seguire il brano mentre ascoltiamo quell’interpretazione magistrale. La maestra ha però detto che si tratta di una prova di “comprensione orale” e, in questo genere di prove, noi non possiamo vedere ciò che viene letto.

Ad un certo punto i miei compagni scoppiano a ridere, ma, siccome mi stavo facendo cullare da alcuni suoni prodotti, non ne capisco assolutamente il motivo. Anche la maestra scoppia in una risata e, dato che ho imparato che quando tutti ridono, se tu non sorridi fai la figura di quello strano e rischi di attirare l’attenzione, decido di accennare un sorriso forzato. Per fortuna la lettura del racconto continua senza che nessuno si sia reso conto del gravissimo dramma che si è consumato dentro di me a causa di questa incompresione, e il cuore può ritornare nella sua sede senza minacciare di uscire, la sensazione di fastidio al collo resta però costante, accentuata da questa situazione tremendamente stressante. Viene pronunciata la parola “tesoro” e la mia mente visualizza immediatamente l’immagine di quel baule pieno di soldi che avevo visto qualche ora prima nei cartoni animati. Ebbene sì, era stato commesso un furto che si era poi concluso con un’indulgente orso-poliziotto che aveva capito le motivazioni degli animaletti colpevoli e aveva deciso di non punirli, dando loro una lezione molto più educativa di quella che sarebbe potuta derivare da un castigo.

Mentre la mia mente è avvolta dalle immagini della tv e il mio corpo si sta rilassando dopo lo shock subito qualche secondo prima, arriva il momento più difficile per me: quello delle domande aperte sul brano appena ascoltato. Me ne accorgo perché c’è un attimo di silenzio e i miei compagni si scambiano delle parole sottovoce. Le domande sono sempre di un numero inferiore rispetto a quello degli alunni della classe quindi devo sperare che la maestra non voglia chiamare proprio me. Gli altri mi sembrano sempre così pronti e disinvolti quando è il loro turno. Certo, c’è Marcello che non conosce mai le risposte, ma non sembra interessarsene troppo. Io sono bravo in questa materia ma soprattutto nelle verifiche scritte, quando c’è una situazione di intimità tra me e il foglio che ho di fronte. Posso prendermi il mio tempo, nessuno pronuncia le parole conferendo loro dei suoni particolari che mi distraggono e mi portano verso altre storie e, se mi perdo tra i pensieri, il mio fedele compagno bianco bidimensionale è sempre lì che aspetta che io ritorni dalle mie digressioni. Qui invece c’è l’aspettativa della maestra nei miei confronti, l’attenzione totalmente puntata su di me nel silenzio della classe, l’attesa che io dia la risposta e spesso mi si rimprovera il mio parlare con un volume di voce troppo basso, costringendomi quindi ad avere addosso per un tempo maggiore gli occhi dei miei compagni di classe perché mi si chiede di ripetere la risposta con un tono di voce più alto, che non è un’impresa facilissima se senti il respiro che ti manca e il cuore che sta rimbalzando nel petto. E c’è ancora questa terribile sensazione di calore e fastidio dietro al collo, che sembra che qualcuno mi stia tenendo intrappolato, un po’ come fanno i lupi quando devono trasportare i loro cuccioli da un posto all’altro solo che nel mio caso questa stretta non è amorevole e non serve per salvarmi ma anzi, mi trattiene in una posizione da cui vorrei soltanto scappare.

Fino ad ora sono stati chiamati a rispondere i miei compagni e tutti conoscono bene la risposta, fanno tutti un’ottima figura. Spero dentro di me che chiami anche Marcello o che qualcuno non sappia rispondere, non voglio essere l’unico a fare la figura dell’asino. Questo pensiero mi porta proprio a visualizzare delle enormi orecchie che spuntano improvvisamente allungandosi sopra la mia testa, proprio come succede nel cartone animato di Pinocchio. La tensione sale sempre più e, con lei, la morsa che sento sul collo.

Arriva il mio turno. I battiti del mio cuore sono dei tonfi pesanti e velocissimi, temo che si percepisca il mio petto che si muove anche dall’esterno e incurvo un po’ la schiena per evitare che qualche compagno possa accorgersene e prendermi in giro. La maestra annuncia la domanda dicendo che è molto semplice, il che non fa altro che agitarmi ancora di più. Sento le tempie pulsare e un prurito invade il mio corpo, come se un esercito di pulci avesse scambiato la mia pelle chiara per una distesa piena di neve da esplorare.

“Perchè Giovannino si è arrampicato sull’albero?” Silenzio. Le mie sensazione fisiche si fanno sempre più insopportabili. Le domande che iniziano con quella parola di solito mi causano enormi problemi. Trovo spesso risposte che per me hanno senso ma non sembrano averne per gli altri. Spesso suscitano ilarità oppure sguardi straniti, di quelli che ti scrutano con le sopracciglia sollevate, la fronte corrucciata e quella strana piega sulle labbra, che mi hanno spiegato che indica disgusto, se si tratta di cibo, oppure disprezzo, se si tratta di persone. Mi stropiccio le mani premendo le dita le une sulle altre, accavallandole e producendo configurazioni poco usuali per gli altri ma di conforto per me. La sensazione tattile per me è fonte di tranquillità: le dita, infatti, sembra che si abbraccino tra loro facendosi coraggio a vicenda. Con voce flebile, ma che è tutta quella che riesce a fuoriuscire dalla mia gola, divincolandosi tra gli spazi resi angusti da quell’enorme nodo che si creato nei precedenti minuti, dico: “Perché l’albero è nel parco!”.

Appena finisco di pronunciare queste parole, con l’enorme sforzo che l’emissione di questa frase ha comportato per me, riesco soltanto a percepire un’immagine e poi un frastuono insostenibile. Due occhi marroni, con ciglia fitte e lunghe, che si sgranano e mi ricordano gli enormi occhi del lupo di Cappuccetto Rosso, quando indossa la vestaglia della nonna. La colonna sonora che si accompagna a questa immagine spaventosa è un coro di risate di diversa intensità, alcune acute e intermittenti, altre più gravi simili a schiamazzi, tutto si mischia in un vortice di rumori lugubri. La morsa sul collo che mi aveva tenuto in pugno fino a quel momento si stringe al punto che percepisco un dolore intenso, una sensazione di caldo eccessivo sul collo, come se mi fossi ustionato, le pulci iniziano a scavare tane nella neve porosa della mia pelle e il cuore ormai vagabonda nel corpo e sbatte fino a raggiungere, spostandolo, l’enorme nodo che avevo in gola. Quest’ultimo balza fino all’ugula e inizio ad urlare, mi rifugio sotto il banco con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie, con le dita ancora intrecciate tra loro. Inizio a dondolare avanti e indietro con tutto il corpo, ripercorrendo mentalmente il momento in cui mi ero stiracchiato nel mio letto: forse l’avevo fatto nel modo sbagliato, dato quello che stava succedendo. Nel momento in cui percepisco una pressione sulla spalla e qualcuno che prova a tirarmi fuori dalla mia caverna sicura, mi divincolo con tutte le mie forze e mi lancio in una corsa forsennata fuori dalla classe, verso il cortile: ho bisogno di aria. Raggiungo un angolino dove amo giocare con il mio amico del cuore durante l’intervallo e mi fermo lì, accovacciato vicino al muro.

Di lì a poco percepisco un rumore di passi sulla ghiaia, che si fermano a una distanza di sicurezza dal mio nuovo posticino. Qualcuno mi porge uno straccio azzurrino. Guardando meglio mi accorgo che si tratta della mia polo, che, senza pensarci, durante la corsa, avevo lanciato in corridoio. Alzo lo sguardo e vedo che è l’insegnante di Andrea, il mio compagno non vedente, che ha il braccio allungato verso di me. Non ho mai parlato a fondo con lei ma, quando ci siamo scambiati delle battute, è sempre stata gentile nei miei confronti, diversa dalle altre. Si avvicina con cautela e mi dice: “Io non sopporto le magliette con il collo alto, come la tua polo, mi fanno sentire accaldata, probabilmente l’avrei lanciata anche io! Quando ti senti meglio però ti aiuto a rimetterla perché non si può stare nudi in cortile”. La melodia che produce con quelle parole e la cadenza regolare con cui le pronuncia, fanno piano piano ritrovare la strada di casa al mio cuore. Anche le pulci rinunciano alla loro nuova dimora e sembrano dissolversi tra la ghiaia del cortile e la morsa al collo viene sostituita da una sensazione di freschezza, complice il venticello che mi soffia addosso. Accetto di rivestirmi e la maestra mi aiuta a ripiegare il colletto verso il basso, in modo che non mi stia aderente sulla pelle. Osservo i riflessi della luce del sole che filtra tra i suoi capelli neri e ricci e le ombre che si proiettano sui ciottoli del cortile. Una sensazione di calma e tranquillità, simile al torpore che provo la mattina, nella sicurezza della mia cameretta, mi pervade, sommergendomi come un’onda rispettosa e avvolgente. Aggiungo così una nuova immagine rassicurante al repertorio di fotografie mentali a cui posso fare affidamento quando avrò degli altri momenti difficili. E ora so di avere un’alleata, che forse potrà aiutarmi a trovare risposta a quei “perché” che ancora costituiscono un mistero per me.

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