Storia della Solitudine

di Victoria Phoenix Dickens

Questa è la storia della Solitudine, figlia di Tristezza e Destino.

Era molto bella, ma i suoi grandi occhi di colore castano scuro nascondevano una profonda sofferenza: fin da piccola, veniva isolata e bullizzata dai suoi coetanei a causa di una particolarità fisica con cui era nata. Si trattava di vaste zone della testa in cui i capelli non crescevano.

A niente le serviva coprire quelle zone; per quanti sforzi facesse, i compagni non perdevano occasione per schernirla. Ogni giorno della sua vita.

Aveva provato a parlarne a casa, ma il padre era spesso assente e la madre, benché fisicamente ci fosse, non le prestava mai attenzione. Tristezza infatti, a causa di proprie sofferenze di cui pochi sapevano, era in grado di occuparsi solo del benessere fisico della figlia ma non anche di quello del suo cuore. Quando non era dedita ai lavori di casa o a cucinare, Tristezza stava accasciata sul divano.

Non vedeva Solitudine, né riusciva a sentirla; avvolta nel proprio buio, non notava ciò che avveniva nella stanza.

Solitudine si sentiva sempre invisibile senza esserlo.

Così un giorno, a malincuore, scrisse una lettera d’addio alla propria madre, che mise in bella vista sul tavolo della cucina, e andò via per non fare più ritorno.

Sulle guance percepiva il leggerissimo solco delle lacrime che da sempre lottavano al suo interno per uscire; tuttavia, non lo fecero nemmeno quella volta.

Qualcosa in lei era bloccato – forse spaventato?

Sentiva i piedi ancora più pesanti del solito. Camminava davvero a fatica.

Adesso era da sola nel vero senso del termine.

In quel momento, Buio e Freddo, suoi unici amici da quando era nata, le donarono parte di sé.

Buio le confezionò indosso una maglietta aderente off-shoulder lunga fino a sopra l’ombelico, con lo scollo a cuore e le maniche corte, e pantaloni che partivano da sotto l’ombelico e che arrivavano fino alla caviglia, morbidi alle estremità ma larghi in tutta la parte restante.

Freddo, invece, le creò un’elegante ma semplice corona fatta di ghiaccio con qualche fiocco di neve incastonato sopra in modo che tutto, nell’insieme, fosse gradevole alla vista, e gliela pose sulla testa.

Solitudine si rimise in marcia.

Camminò molto a lungo, fino a quando intravide, in lontananza, una zona dai colori più sgargianti rispetto al resto del paesaggio.

Si trattava del prospero regno di Coloria, la Terra degli Arcobaleni, dove questi vivevano in pace e armonia secondo una linea dinastica femminile. Era la regina, infatti, a essere alla guida del coloratissimo reame.

Di base, gli arcobaleni avevano capelli, sopracciglia, occhi, labbra e unghie di mani e piedi di tutti i colori, appunto, dell’arcobaleno, mentre il sangue di ciascun individuo variava, ma era sempre di un solo colore: alcuni lo avevano giallo, altri verde, altri rosa, e così via per tutti i colori esistenti tranne il blu, prerogativa dei membri della stirpe reale.

Inoltre, potevano volare, senza ali o polvere di fata: per andare da un punto all’altro del cielo erano i loro capelli a sospingerli nella direzione da loro desiderata, capelli che si allungavano nel cielo.

Qui Solitudine conobbe Arcobalenia IV, principessa degli arcobaleni un po’ più grande di lei. Come età, poteva essere sua sorella maggiore.

Quando Solitudine la vide, i lunghi capelli ondulati della futura regnante scintillavano sotto il sole, ma a farla invaghire della principessa fu la prima risata di quest’ultima.

Le due ragazze fecero subito amicizia. All’inizio Arcobalenia IV pensava che anche Solitudine fosse una principessa, per via della corona di ghiaccio sulla sua testa. Quello fu l’inizio di una loro prima conversazione, a cui seguirono molte altre.

Con il passare del tempo, ciò che vi era tra loro si evolse, divenendo più solido e più forte, anche attraverso varie difficoltà.

Un giorno la futura sovrana portò Solitudine sul Pianeta dell’Amore, dandole un dolce e passionale primo bacio. Mentre le loro labbra si accarezzavano, i capelli di Solitudine, pur mantenendo la loro base d’argento, assunsero anche una colorazione rosa, e lo stesso valse per le sue sopracciglia. Questo nuovo colore, un misto di argento e rosa, le rimase fisso su capelli e sopracciglia anche dopo il bacio.

Era la prima volta che Solitudine provava quel tipo di sentimento per qualcuno. Amore Vero, ricambiato.

Arcobalenia IV la faceva sentire accettata, compresa e amata.

La giovane arcobalena non vedeva l’ora di presentare la sua fidanzata ai genitori. L’esperienza però non fu come le ragazze speravano: i sovrani, in particolare la regina, erano infuriati con la loro figlia per la sua relazione amorosa con Solitudine. Arcobalenia III fece rinchiudere la principessa nelle sue stanze, con porte e finestre sorvegliate dall’esterno giorno e notte, e intimò a Solitudine di allontanarsi immediatamente dal loro regno e non tornare mai più.

In un attimo Solitudine si sentì di nuovo al freddo e al buio.

Mentre camminava verso chissà dove, le venne in mente una poesia che aveva scritto tempo prima: “Sono nata al freddo e al buio, / E la sensazione di un dolore cantava, / A me nella culla, / La ninnananna.”

A un certo punto dovette fermarsi.

Dal suo cuore infranto uscì una prima lacrima timida e furtiva, seguita a ruota da moltissime gemelle – tutte quelle che Solitudine aveva fino a quel momento pianto all’interno, adornandole l’anima come piccole, splendenti gemme.

Mano a mano che raggiungevano il terreno, andavano a costituire, una a fianco all’altra, una strada luccicante. Solitudine decise di seguirla.

Il sentiero di lacrime finiva davanti a uno spiazzo erboso, su cui vi era un cartello di legno con la punta rivolta verso l’alto e incisa sopra una scritta: “SERENITÀ”. Proprio alle spalle dello spiazzo erboso, e del cartello, si ergeva una montagna molto alta e ripida.

Solitudine si fece coraggio e iniziò la scalata.

I primi due terzi furono un vero inferno per lei, sotto molti punti di vista: massi che rotolavano giù, un improvviso temporale e altre difficoltà, oltre al fatto che le riusciva difficile trovare appigli.

Durante la salita perse anche la corona, che le scivolò quasi subito dalla testa. Quanto ai vestiti, quando Solitudine arrivò al restante terzo erano ormai ridotti a brandelli.

Ma a quel punto tornò il sereno, e per lei arrampicarsi non era più quasi per nulla difficile. Il sole la inondò della propria luce, accarezzandole le guance con i suoi raggi gentili e asciugandole all’istante capelli e indumenti.

Inoltre, da quando era entrata nel restante terzo della scalata, aveva iniziato a sentire dentro un senso di pace che aumentava mano a mano che lei saliva.

In cima Solitudine trovò una caverna. Decise subito di entrarvi: in quel luogo si sentiva a casa.

Soffriva ancora per gli avvenimenti del suo passato, ma stava iniziando ad accettare com’erano andate le cose. Dall’ultimo terzo della salita infatti Solitudine si sentiva più leggera.

I suoi indumenti si ricostituirono, unendosi e trasformandosi in un abito dalla gonna lunga e ampia, e sulla sua testa le si formò un nuovo diadema: questa volta però, il ghiaccio di cui era fatto aveva una sola punta rivolta verso il basso, al centro della fronte.

In quel momento Solitudine udì una voce.

“Benvenuta!”

Proveniva quasi dal fondo della caverna, e apparteneva alla Serenità.

Anche avvicinandosi a lei, Solitudine non riuscì a capire di preciso quanti anni avesse.

Serenità era molto dolce. La indirizzò verso un ascensore di cristallo che si trovava lì vicino, esattamente in fondo alla caverna, suggerendole di premere, una volta dentro, il tasto su cui c’era l’immagine di una tazza di caffè.

Non appena Solitudine l’ebbe schiacciato, l’ascensore svanì dalla caverna: si spostava con il teletrasporto.

Arrivò al centro dello Spaziotempo. Di fronte a un bar che vi era lì in mezzo l’ascensore si fermò, aprendo in automatico le sue ante.

“Bar dei Viaggi Profondi”, c’era scritto sull’insegna luminosa.

Ad accogliere la Solitudine dentro vi erano l’Amore, il Dolore e la Paura. Solitudine scoprì che Dolore la stava aspettando per chiacchierare un po’ con lei.

Era un vecchietto molto affabile. Anche gli altri due erano buoni e gentili.

Ma tristi, tutti e tre… Sedendosi a un tavolino, Solitudine incrociò lo sguardo della Paura e le sorrise con dolcezza. Paura contraccambiò, e mentre preparava un cappuccino di sogno a Solitudine, quest’ultima e Dolore iniziarono a parlare.

Per la Solitudine fu una liberazione.

All’inizio aprirsi le era molto difficile, ma una volta iniziato a farlo le parole scorrevano dal suo cuore verso l’esterno con lo stesso impeto di un fiume in piena.

Mentre i due dialogavano, le lacrime che avevano costituito, una a fianco all’altra, il sentiero, erano arrivate volteggiando con grazia e le si erano posate tutto intorno alla gonna del vestito. Sembravano piccoli diamanti luminosi.

Parlando a lungo con Dolore, per Solitudine cambiò tutto.

Riuscì ad accettare completamente e a perdonare gli episodi dolorosi del proprio passato.

Trovò un’amica fidata e leale in sé stessa – per la verità, la migliore che potesse desiderare.

E decise di esserci, da quel momento in avanti, per le persone quando avevano bisogno ma non c’era nessuno con e per loro, poiché sapeva cosa significasse essere soli.

Solitudine capì che quella era la missione per la quale era nata.

In quel momento il bar scomparve, e Solitudine si trovò immersa in un potente fascio di luce.

Davanti a lei, nella luce, vi erano Destino e Libertà.

La Libertà, dai lunghissimi capelli fatti di vento, era di una bellezza disarmante. Le confidò di essere sua madre biologica: quando Solitudine era nata, aveva deciso di affidare la propria figlia a sua cugina Tristezza, per cercare di consolare quest’ultima attraverso la cura di un bambino, cosa per la quale Libertà era convinta di non essere adatta.

Ma le cose non andarono come aveva immaginato: Destino, il proprio amante, non le aveva detto che cosa sarebbe successo nel futuro e quali conseguenze avrebbe portato quel gesto.

I suoi genitori biologici le consegnarono un oggetto: una carta dei tarocchi in miniatura fatta d’argento, “l’Eremita”. Essa avrebbe agito come catalizzatore e amplificatore del dono della Solitudine e di altri, tra cui il Dolore: l’ubiquità.

Fino a quel momento, la ragazza non sapeva di essere capace di farlo.

Tenendola con sé, la Solitudine sarebbe riuscita molto facilmente a trovarsi insieme a più esseri umani in contemporanea.

Solitudine si trovò di nuovo nella caverna.

Serenità la aiutò a incastonare la piccola carta al centro del diadema.

La vera casa della Serenità era la spiaggia dalla sabbia finissima e candida del Mare Pacifico, piuttosto lontano da lì. Prima di lasciarla partire, Solitudine la ringraziò per tutto l’aiuto che le aveva dato e le regalò un sacchetto di tulle pieno di piccoli cristalli di ghiaccio.

Serenità sapeva che cosa farne: li avrebbe immersi nelle acque di quel particolare mare, ed essi si sarebbero trasformati in tritoni bambini e sirenette, tutti dotati di un’intelligenza superiore, dando vita a una nuova tipologia di sirene, con la coda e le pinne bianche e cristalli di ghiaccio di varie dimensioni e forme incastonati qua e là su tutta la coda e uno piccolo al centro della fronte, sopra il terzo occhio. Questi nuovi tritoni e sirene avrebbero saputo governare il ghiaccio, e con esso avrebbero creato Icia, la loro prospera città subacquea.

Con un abbraccio, le due si congedarono.

Il cartello ai piedi della montagna ora aveva sopra un’altra scritta: “SOLITUDINE”, e così sarebbe stato oltre l’eternità.

Per Solitudine iniziò una nuova vita: con il diadema sempre indosso, iniziò a esserci per gli esseri umani se e quando si sentivano soli.

I più la temevano o la disprezzavano, chiamandola “Loneliness”, altri invece l’avevano saputa vedere e comprendere, considerandola una cara amica, e le avevano dato il soprannome affettuoso di “Solitude”; ma nessuno sarebbe mai più stato solo, anche chi era convinto di esserlo, perché con loro, da quel momento, ci sarebbe stata lei: la Solitudine.

Fine del racconto? Non proprio…

Grazie a un laghetto sempre ghiacciato che vi era nei pressi della caverna, Solitudine scoprì di essere un’eccellente pattinatrice di figura sul ghiaccio. Pattinare diventò la sua grande passione, oltre a quella di aiutare gli altri. Andava a pattinare spesso, assicurandosi sempre di avere indosso il diadema.

Un giorno, mentre stava come le altre volte creando Bellezza sul ghiaccio, vide un ragazzo materializzarsi su una sponda. Aveva occhi, capelli e sopracciglia di colore rosa, ed era un po’ più grande di Arcobalenia IV. A volte Solitudine pensava ancora a lei con nostalgia.

Quel giovane, lo aveva già visto nel bar. Era l’Amore…

Le sorrise. Era lì per darle una notizia: per lei e Arcobalenia IV c’era una speranza…

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