De Gustibus

Un’indagine del detective Amaro

Prima puntata

di Massimo Croce

Un racconto per chi adora il noir.

Un racconto per chi cerca la suspense.

Un racconto per chi ama Genova.

Genova. Non riconosco piú questa città.

Cammino per i vicoli del porto; le case sono alte, vecchie e cupe. Sopra di me vedo solo strisce di cielo grigio; piove, come sempre.

Sprofondo le mani nelle tasche dell’impermeabile e non bado all’acqua gelida che mi scivola addosso. Dai canali di scolo giunge odore di veleno per topi, plastica e fango. Questa città sta perdendo il suo sapore.

Una volta era tutto piú facile.

Colazione, pranzo, cena. Queste erano le nostre giornate; non c’erano aperitivi, brunch, o happy hour.

Tra l’altro, cosa diamine sarebbe un’happy hour? Nessuno è “happy”, da queste parti.

Mi chiamo Amaro. Sono un detective privato, gastronomia criminale. Il mio dannato lavoro. So fare solo questo, e non vorrei fare altro nella vita.

Arrivo sulla scena del delitto. Uno squallido bar nei portici di Sottoripa.

L’inizio di un’indagine, di solito, mi dà un brivido di piacere. È una sfida, una delle poche cose che ancóra mi fanno sentire vivo.

Ma questa volta è diverso.

Questa volta è morto un mio amico.

Salato.

La Polizia del Sapore va avanti e indietro per il locale.

Lui è sul bancone, in una tazza di cappuccino. Non riesco neanche a riconoscerlo: è dissolto completamente. Una striscia di focaccia è infilata nel cappuccino ormai freddo: a quanto pare, Salato si è steso sulla sua superficie, la focaccia si è immersa nella tazza, e lui si è sciolto.

Suicidio, dice la Polizia del Sapore.

Ma io non ci credo.

Salato era una persona di buon gusto, non si sarebbe mai tolto la vita.

Jeri mi aveva telefonato. Voleva parlarmi di una caponata: sembrava sconvolto. Ci eravamo dati appuntamento per stamattina, ma lui non si è presentato.

Gli ho augurato di essiccarsi. Povero diavolo, a quell’ora era già sul fondo del cappuccino.

Ci eravamo conosciuti molti anni prima in una pizzeria di Sestri Ponente.

Io ero in una birra, lui su una pizza.

Non eravamo proprio amici (l’amaro e il salato non stanno bene insieme), ma ci rispettavamo.

Poi arrivò questa ragazza, Dolce, e tutto andò in malora. Eravamo entrambi innamorati di lei. Lei scelse Salato, e forse fece bene: io le avrei dato troppe amarezze.

Si sposarono, e lei lo cambiò. Una volta fecero una vacanza sull’Himalaya: al ritorno, lui era rosa.

Perdemmo i contatti; da allora non ho saputo piú nulla di lui. Fino a jeri. E oggi è morto.

Quel maledetto cappuccino. Gli avevo insegnato io ad amare il caffè. Caffè amaro, come la vita. È stata questa passione a ucciderlo?

Non lo so.

Cosí ispeziono il bar.

Sotto il bancone trovo un cucchiaino.

Lo prendo con un fazzoletto e lo do a uno della scientifica.

«L’arma del delitto?» ipotizzo.

«Improbabile.» risponde quello «Il soggetto si è sciolto súbito. Non c’era bisogno di mescolare.»

Un tempo un simile resoconto mi avrebbe fatto rabbrividire; ma ormai sono diventato insensibile alla violenza. Non mi interessa il come, ma il chi e il perché.

Ci sono alcune persone con cui voglio fare due chiacchiere.

La prima è la dolce metà di Salato.

* * *

Dolce mi accoglie in una fontana di cioccolato.

Non è ammuffita di un giorno. La sua pelle è bianchissima: è autunno, quindi è di barbabietola. In estate invece è di canna, e sembra piú abbronzata. Porta come un tempo due lunghe trecce, con fiocchetti rosa che sembrano caramelle. Dannazione! Mi innamoro troppo facilmente.

Mi sento a disagio tra i lamponi, i marshmallows e gli orsetti gommosi che ci galleggiano intorno. Dalla cascatella mi arrivano schizzi di cioccolata bollente: è al latte, troppo dolce per i miei gusti.

Lei è ancóra sotto shock. Mentre parla, dai suoi occhi scendono lacrime di caramello.

«Non riesco a credere che si sia annegato.» sospira «Salato aveva una vita appetibile e piena di soddisfazioni.»

«Non vorrei esser privo di tatto,» dico «ma, negli ultimi tempi, com’era il vostro rapporto?»

«Ci siamo sempre amati! Anche lui aveva il suo lato dolce.»

Fatico a crederlo.

«Abbiamo fatto l’amore su tutti i buffet dolci-salati di Genova.» continua «Io lo chiamavo “Salatino” ed ero sempre appiccicata a lui come il miele. Lo baciavo in continuazione con la mia bocca di fragola. Quando eravamo soli preparavamo cuoricini di zucchero, tutte le sere. Davvero non capisco perché si sia ucciso.»

Maledetti yuppie, penso io, vi sarete fatti anche strisce di zucchero a velo.

«Che mi dici di Acida?» domando «Era ancóra socia in affari con Salato?»

Vedo un’ombra negli occhi di lei.

«Sí, mi pare…» minimizza «facevano qualche lavoretto insieme, a volte… Purtroppo Salato non mi raccontava tutto.» poi cambia argomento «E tu? Com’è la tua vita?»

Sogghigno.

Domanda sbagliata.

«La mia vita?» ripeto «Nient’altro che solitudine e odio per me stesso. Una lunga serie di aperitivi e digestivi senza mai un vero pasto in famiglia.»

«Mi dispiace…» mormora Dolce.

«Non pensarci, bambina.» ribatto «Il mio mondo è un casino, e non è colpa tua.»

Mi tocca la spalla, con le sue dita candite.

«Vorrei poter fare qualcosa.» sussurra.

«Forse qualcosa c’è.» rispondo io, e la bacio. Un lungo bacio dolceamaro. Lentamente, tutto il cioccolato intorno a noi diventa fondente.

La lascio.

«Ora so quello che volevo sapere.» commento.

«Cosa?» balbetta lei.

«Tu non lo amavi piú. Forse non lo hai mai amato.»

«Sei un bastardo!» esclama, incredula.

Raggiungo il bordo della fontana ed esco dalla cioccolata.

«Non avrai il dessert!» grida.

«Sono un gusto cattivo, dolcezza.» ribatto «E non piaccio a nessuno.»

* * *

L’aria del mare mi schiaffeggia il viso. Cammino sulla banchina, spruzzi di onde salmastre mi bagnano l’impermeabile. Forse in questo mare tempestoso c’è qualcosa di Salato.

La cupa mole di un vecchio silo incombe sopra di me.

Noto che sul terrazzo di un magazzino c’è un enorme spremiagrumi. È nuovo, scintillante e sembra un disco volante. Lo riconosco: è il velivolo privato di Acida. Dannata riccona. Mi arrampico su una scaletta arrugginita e ispeziono l’apparecchio. L’abitacolo è minimalista; non capisco nemmeno come si guidi un aggeggio del genere. Qua non c’è nessuno.

Lascio lo spremiagrumi e odo dei rumori: provengono da un capannone abbandonato. Mi accovaccio vicino a una finestra rotta e sbircio all’interno.

Vedo un lungo nastro trasportatore, su cui vengono assemblati pezzi di sushi, sashimi, hosomaki e uramaki in piattini colorati. Una vera fabbrica clandestina.

Tra i macchinarî ci sono due gusti: Acida e Umami. Conosco il secondo di vista: è un gusto giovane, originario del Giappone. Un tipo pieno di segreti: nessuno ha ben capíto di cosa sappia.

«Smettila!» piagnucola Umami.

«Cos’è questa delicatezza?» ghigna Acida, e solleva un sushi al Philadelphia, che súbito diventa giallognolo.

«Per favore!» geme Umami «Non inacidire il mio formaggio cremoso! Ti ho già dato tutto l’umami che avevo!»

«Tu mènti.» replica Acida «Visto che Salato è morto, pensi che l’accordo non sia piú valido. Come preferisci. Trasformerò la tua salsa di soja in un grande frullato macrobiotico.»

«No! Non farlo!»

«Perché no? Non mi fido piú di te. Aspetti solo un’occasione per caricare tutto il sushi sulla barca di legno, e poi scappare in Francia! Sarai anche un sapore, ma non hai carattere.»

«Questo non è vero! Io do alla zuppa il suo gustino buono. E per farlo non ho bisogno di te né di Salato!»

«Pensi di potercela fare da solo? Sei patetico.»

Acida colpisce un California roll, che si liquefa in un aspro estratto di cetriolo e infradicia Umami dalla testa ai piedi.

«Aaaaargh!» grida quello «Vuoi disintossicarmi!?!»

«Ora basta, Acida!» tuono io, e balzo giú, atterrando davanti a lei. Estraggo il mio carciofo e glielo punto contro.

«Amaro!» esclama ella senza scomporsi. Mi disarma con un calcio, salta sul nastro trasportatore e corre via tra i sushi. Umami approfitta della situazione per svignarsela; io inseguo Acida.

Supero piattini di riso, salmone e alghe cercando di non perdere l’equilibrio. All’improvviso calano dall’alto due enormi bacchette di legno, che per poco non mi afferrano: le scanso, e quelle acchiappano un gambero.

«Sarei stato un boccone troppo amaro, bellezza.» grugnisco, poi riprendo l’inseguimento.

La strada di Acida è bloccata: una ciotola di zuppa di miso occupa tutto il nastro scorrevole. È in procinto di attraversarla a nuoto, quando le intimo di fermarsi.

«Non mi prenderai mai!» sogghigna lei «I miei recettori si trovano ai lati della lingua, i tuoi sul fondo. Arriverò sempre prima!»

«Forse hai ragione,» ribatto, e sollevo un pugno di pasta verde «ma io ho una palla di wasabi piccantissimo, e non esiterò a lanciartela.»

«Non c’è da stupirsi, se non piaci a nessuno!» sibila lei, ma tentenna, e il suo viso arancione diventa giallo.

Il nastro cigola sotto di noi.

«Cosa vuoi?» mi chiede alla fine.

«Salato era mio amico.» rispondo «Voglio scoprire chi l’ha ucciso. Che ruolo aveva in tutto questo? E cos’è questo posto? Raffinate umami, è chiaro, ma perché?»

«Temo che tu ti sia imbattuto nel nostro piano per conquistare il mondo.» ammette Acida «Perché proprio il gusto umami? Questo può capirlo anche una mente in bianco e nero come la tua. Salato ed io nascondevamo l’umami nel cibo; poi lo smerciavamo. Nessuno controlla se in un prodotto c’è dell’umami, perché nessuno sa cosa sia. Non fa male, non dà dipendenza, non è nemmeno illegale. È la sostanza perfetta da spacciare. Non ci avrebbero mai beccati, e ora l’umami sarebbe dappertutto.»

«Capisco. Il piano era questo?»

«No, ovviamente. Questa era solo la prima fase.»

«Qual era la seconda fase?»

«La seconda fase non l’avevamo ancóra programmata, ma la cosa importante è che avremmo conquistato il mondo.»

«Ma poi Salato è morto. L’hai ammazzato tu?»

Acida scoppia a ridere.

«Io? Perché avrei dovuto ucciderlo?»

«Forse era diventato un socio scomodo. Forse volevi tutto l’umami per te.»

«Non essere ridicolo. Ho un alibi per l’ora della sua morte. Ero a un ricevimento col sindaco, dentro un’aranciata.»

Lo sapevo già, ma non prova niente. I gusti sono ubiqui: possono essere in piú posti contemporaneamente. Per questo il mio lavoro è difficile.

«E poi, Salato era essenziale per il nostro piano.» continua Acida «Metteva l’umami nel parmigiano e nelle sardine, mentre io mi occupavo dei pomodori e del ketchup. Ora che lui non c’è piú, i miei affari sono rovinati. Non dico che non avessimo frizioni, di tanto in tanto; ma mai per il denaro.»

«E che mi racconti del tuo pusher giapponese?»

«Lui qualche motivo per uccidere Salato ce l’aveva. Ma non può essere l’assassino. Salato era troppo forte per essere sopraffatto da un gusto delicato come Umami.»

Mi lancia un’occhiata sprezzante.

«Non scoprirai mai la verità.» aggiunge «Sei un gusto squilibrato, troppo Yin e troppo poco Yang.»

«E questo cosa diavolo significa?» ringhio io.

«Significa arrivederci!» esclama lei, poi salta e si aggrappa a una sbarra sopra di noi. Il nastro mi spinge oltre una tenda di plastica, poi si interrompe all’improvviso: sono fuori, perdo l’equilibrio e cado nel mare schiumoso. Per fortuna atterro sul dorso di un calamaro gigante, che è qui per agguantare i piatti di sushi.

Questi animali sono molto comuni nel mar Ligure (in dialetto si chiamano gianchétti cresciüi), e piacciono soprattutto ai bambini, che imparano ad affrontarli con un’ascia fin dalle prime lezioni di nuoto.

Afferro il calamaro per i tentacoli, gli faccio capire con un pajo di strattoni chi comanda, poi lo costringo a nuotare in superficie e lo uso come mezzo per andarmene. Mi siedo sulla pelle scivolosa del mollusco e guardo lo scarico clandestino donde sono uscito. Mi ero sempre domandato dove andassero a finire i nastri trasportatori, e adesso lo so. Maledetti inquinatori, chissà quanto sushi giace sul fondo del mare.

Lo spremiagrumi di Acida vola fischiando sulla mia testa e sparisce tra le nubi.

Conduco il calamaro nel Porto Antico tra schizzi e sobbalzi. Nuotiamo davanti all’Acquario e tutti i turisti si voltano a guardarci.

Non so se li stupisca il calamaro gigante o il vedere la personificazione di un gusto.

Il calamaro punta dritto vero il finto galeone del Porto. Tutti sanno che ai mostri marini piace stritolare gli antichi velieri; ma il nostro galeone mi piace, forse perché anch’io mi sento un po’ pirata.

Cosí dirotto il bestione verso uno yacht lussuoso. Salto sul molo proprio mentre il calamaro mastica la bandiera delle isole Cayman; poi mi dileguo tra la folla dei curiosi.

Continua…

Lascia un commento