Fiore

di Tommaso Lacalamita

Quel giorno neanche ci volevo andare, a lezione.

Era uno di quei giorni che capita di vedere spesso, in novembre, quando il cielo sembra essere così impaziente che arrivi l’inverno da volerlo anticipare, facendo piovere copiosamente per ore e ore. Non avrei barattato il tepore delle coperte per nulla al mondo, quella mattina. Mettiamoci pure il dolce sussurrare della pioggia battente attraverso le finestre, piacevole ninnananna, alleati contro la voglia di tenere fede al mio dovere di studentessa e al senso di colpa che sapevo mi avrebbe colpita, se avessi saltato anche una sola lezione. In più, c’era lui. Roberto.

Sapevo a malapena il suo nome. La prima volta che l’ho visto è stato come nei film: lui era lì, bellissimo, con i suoi capelli biondi, gli occhi azzurri e un fisico da atleta, oltre che uno splendido gusto nel vestire. Per tutto il pomeriggio di quel giorno di settembre rimasi incantata. Il più classico dei colpi di fulmine, insomma. Una cosa patetica, ma meravigliosa.

Come ogni altro giorno di lezione, perciò, dirottai i miei pensieri su di lui e, con la speranza di poterlo rivedere, trovai così la forza di alzarmi. Accesi il telefono, come faccio sempre, e dopo aver cancellato qualche notifica inutile, cominciai la mia giornata. Il cielo era così grigio che sembrava fosse pomeriggio, mentre la pioggia battente nutriva le numerose pozzanghere sulla strada. Avrei senz’altro dovuto mettere gli stivaletti, e coprirmi bene: non potevo rischiare di ammalarmi. Avrebbe significato non poter vedere Roberto per un bel po’ di tempo.

Non mi sono mai impegnata troppo nell’apparire. Tuttavia, quel giorno, una vocina dentro di me mi suggerì di vestirmi carina. Fortunatamente, la ascoltai. Scelsi un trucco nude con tanto, tanto mascara, non legai i capelli e indossai persino gli orecchini pendenti a forma di margherite. Il mio outfit era delicato, colorato ma non troppo; insomma, non avrebbe dato nell’occhio, ma mi avrebbe permesso di stare bene con me stessa. Decisi infine di mettere le lenti a contatto anziché portare gli occhiali. In realtà, fu una scelta legata più che altro al buon senso, visto che la pioggia avrebbe potuto bagnare le lenti degli occhiali, e io odio quando indosso gli occhiali e mi tocca ripulire le lenti.

La lezione non fu entusiasmante, ma aveva degli spunti interessanti e fui felice di non averla mancata. Riuscii pure a scambiare due parole con alcune colleghe, tanto per poter dire di aver socializzato a sufficienza per quella settimana. Certo, non mentre il prof stava parlando. Stavo benissimo da sola e fare comunella avrebbe solo finito per distrarmi. Un po’ invidiavo il rapporto che c’era tra alcune di loro, ma pensando poi a tutta la fatica che c’è da fare quando si tratta di relazionarsi con le persone, e soprattutto, le mie esperienze passate, rinunciavo all’istante a qualsiasi proposito. Ho la certezza che mi ritenessero una tipa strana, sempre e solo piegata sui suoi appunti, e poi via, sparita non appena la lezione finiva, ma non potevo fare altrimenti. Non ero in grado di socializzare. Non ero nemmeno sicura di averlo mai saputo fare. Non avevo nessun tipo di amicizia, nemmeno al di fuori dell’università, ma, in fin dei conti, stavo bene anche così.

A metà lezione c’era sempre qualche minuto di pausa, che io trascorrevo per conto mio. Correvo verso il bar del plesso, mi mettevo al caldo, in un angolino, proprio vicino alla grande scalinata d’ingresso, posta di fronte all’entrata, e bevevo il mio ginseng in religiosa solitudine. Era per me un rito. Prima di rientrare, poi, passavo un paio di minuti buoni a guardare la gente che, tremante, usciva all’aperto per mettersi a fumare, e benedicevo il fatto di non aver mai toccato una sigaretta in vita mia. Tra quelle persone, puntualmente, c’era anche Roberto. Era bello stare ad osservare il suo profilo perfetto, mentre lui non si sarebbe nemmeno accorto che ero lì a fissarlo. La sua barba curata, le sue labbra armoniose. Patetico, da parte mia, ma bello.

Quel giorno le cose andarono come al solito. Era anche lui a lezione, ma dieci minuti prima della fine, quando ancora il prof stava leggendo e commentando i testi, si alzò e prese la porta. Per un istante fui tentata di seguirlo, poi la mia imponente razionalità ebbe la meglio. Scossi la testa, facendo dondolare le margherite, e allontanai dalla mente la sua sagoma perfetta. Andava bene così, anche se nemmeno stavolta ero riuscita a farmi regalare uno sguardo, o a farmi rivolgere la parola: lo avevo visto, e tanto mi bastava. Ripresi a concentrarmi sulle parole del prof e i poeti provenzali, anche se fu dura non fantasticare su di lui che mi dedicava una canzone per conquistarmi.

Era in vigore l’ora solare, per cui era già buio pesto quando la lezione finiva. Avevo un altro rito, quello di andare a studiare in un posto dove facevano uno squisito tè nero aromatizzato all’arancia e cannella: arredato con uno stile tendente al minimalista, a metà tra il country e il kitsch; si stava belli caldi, ma non troppo; la musica, perlopiù strumentale, veniva diffusa ad un volume accettabile, tanto che non dava alcun fastidio nemmeno a starsene con le cuffiette; i camerieri non passavano mai a farti fretta; la password del wi-fi era scritta su ogni tavolino, quindi non dovevi nemmeno chiederla. Me ne stavo lì seduta e mi divertiva molto passare il tempo sui social. Era il giusto compromesso tra avere a che fare con le persone e non avere a che fare con le persone.

Quel pomeriggio stavo leggendo un articolo su cui ero capitata per caso, quando fui distratta da un vocìo e da un tono familiare. Prima ancora di sollevare la testa per osservare la fonte di quei rumori, sapevo che avrebbe potuto essere soltanto lui. Si trattava proprio di Roberto, infatti; era entrato qualche istante prima, con i suoi amici e quella che doveva essere sicuramente la sua ragazza, considerato come gli stesse avvinghiata, e si erano appena seduti ad un tavolo poco distante dal mio. Non ci potevo credere. Feci tutto il possibile per limitarmi a lanciare solo qualche sguardo fugace, ma la verità è che non potevo fare a meno di guardarli.

In confronto alla sua ragazza, io ero uno sgorbietto. Lei portava i capelli lunghi, biondi e ricci; io, trascurati, castani e più o meno mossi. Lei aveva degli occhi chiari stupendi e un trucco fenomenale, mentre i miei erano di un piatto castano e solo il mascara salvava la situazione; lei sfoggiava delle unghie curatissime e dei vestiti e dei gioielli costosi, mentre io… Semplicemente no. Insomma, lei era bellissima, mentre io, forse, giusto appena un po’ carina. Eravamo praticamente agli opposti, io e lei, e non avrei potuto assolutamente competere. Dopo pochi minuti di agonia, decisi di andarmene. Successe però l’imprevedibile.

Mi ero alzata, rivestita, ed ero pronta ad andare in direzione dell’uscita. Avevo leggermente voltato la testa per controllare se avessi preso tutto. Quando tornai a guardare dritto, poggiai inconsciamente la mia visuale su di lui, e notai che stava ricambiando. Dopo istanti lunghi quanto minuti passati così, i miei occhi nei suoi, i suoi nei miei, da entrambi uscì un “ciao!” e un mezzo sorriso. Ero stravolta, totalmente impreparata, allucinata.

Mentre mi avvicinavo alla porta, un uragano di domande mi esplodeva nella testa. Perché, pensai, perché fra tanti posti, doveva venire proprio qui? E poi… Mi conosceva? Mi vedeva sempre a lezione? Mi aveva notata? Sapeva che esistevo? Mi aveva scambiata per un’altra? Più cercavo di concentrarmi su una domanda per trovarne la risposta, più queste si moltiplicavano nella mia mente.

Mi ci volle tutta me stessa per tornare alla realtà. Mi bloccai davanti alla porta. Stava piovendo a dirotto. Mi ricordai di recuperare il mio ombrello beige dal portaombrelli, ma per quanto potessi cercare, non c’era più. Era sparito.

“Fantastico”, mi sfuggì ad alta voce, mentre mi sfilavo la sciarpa e cercavo di mettermela attorno alla testa come un turbante. C’erano tanti negozi, lì intorno, sarebbe bastato entrare in uno qualsiasi e comprare un ombrello nuovo, ma il problema era riuscire ad arrivarci.

“Qualche problema? Fiore, giusto?”. Fu difficile per la mia testa registrare tutto quello che stava succedendo in quel momento. Uno: Roberto aveva assistito a tutta la scena. Due: non solo mi aveva guardata, ma mi aveva persino salutata, cosa che ho desiderato invano per molte settimane, e adesso mi aveva di sua spontanea volontà addirittura rivolto la parola. Tre: sapeva il mio nome. Quattro: il mio ombrello si era volatilizzato e io stavo impazzendo a cercarlo, facendo quella che poteva tranquillamente definirsi come una figuraccia bella e buona davanti a lui, la sua ragazza e i suoi amici. Cinque: stava aspettando una mia risposta. Cercai di mantenere la mia solita imperturbabilità, ma mai come in quei secondi lo avevo trovato molto, molto difficile.

“Oh, no, ecco, è solo che il mio ombrello è sparito. Pazienza, tanto era un regalo. Vado subito a comprarmene un altro. Ah, comunque sì, sono Fiore, è il mio nome. Siamo colleghi all’università”. Ce l’avevo fatta. Più o meno. Avevo continuato ad armeggiare con la sciarpa, cercando di guardarlo il meno possibile, altrimenti sarebbero stati guai, mi sarei certamente inceppata. Me l’ero cavata abbastanza bene. Mi ero solo scordata di prendere fiato, tra una parola e l’altra. Ricordo che mi chiesi se stesse succedendo davvero, o se mi fossi addormentata sul tavolo e quello fosse solo un sogno. Dopotutto, chi è che ancora ruba gli ombrelli altrui, al giorno d’oggi?

“Ah, ehm… Ti presto il mio. Me lo riporterai… Domani, a lezione. Che ne dici? Fiore? Sono felice che ti ricordi di me! Sono Roberto, comunque”. Si stava presentando. Esultai internamente. Strinsi la sua mano, grande e calda, mi diede una bellissima sensazione di protezione, che, tra l’altro, era ciò che mi stava offrendo, una protezione dalla pioggia. I miei interrogativi aumentavano. Era solo gentilezza, la sua? E come sapeva il mio nome? Si era già interessato a me, prima d’ora? Cercai con tutte le mie forze di allontanare dalla mia mente qualsiasi illusione o fantasia a cui potevo arrivare costruendomi castelli in aria e feci il possibile per concentrarmi su quello che mi aveva detto, e quello che avrei dovuto rispondergli. No, non potevo accettare. Non davanti alla sua ragazza.

“Grazie, sei molto gentile! Ma non posso… Grazie davvero”, non potevo approfittarmene. Non davanti alla sua ragazza. A me avrebbe dato certamente un fastidio boia vedere una tizia qualunque che civetta con il mio ragazzo. Con la differenza che io non stavo civettando. O forse sì? Non ero nemmeno sicura di sapere come si fa. La mia vita sentimentale è sempre stata inesistente. Avevo avuto un solo ragazzo nella mia vita, e nemmeno sapevo come ci ero finita insieme. Insomma, era solo uno stupido ombrello, per Diana!

“Insisto! Ma se non ti va… Usalo per entrare in un negozio e comprarne uno nuovo, poi me lo riporterai. Tanto, noi ci tratterremo qui per un po’. Magari, se dopo vorrai unirti a noi…”. Era già una soluzione più ragionevole. Avrei deciso dopo se accettare l’invito o no. Intanto, visto che stavo morendo dal caldo, con il volto in fiamme e il corpo che mi ribolliva dappertutto, la cosa più urgente da fare era uscire a prendere un po’ d’aria gelata e razionalizzare. Accettai e corsi fuori, non prima di avergli promesso che sarei tornata subito. Il suo sorriso era meraviglioso. Bello e anche gentile!

Il freddo era pungente, rispetto al calore del locale. Camminando sotto quell’aspirante acquazzone, sentivo il mio cuore battere oltre il cappotto, sovrastando persino il rumore della pioggia. Entrai nel primo negozio che trovai e acquistai il primo ombrello che mi era capitato sottomano, un ombrello rosa pallido. Prima di essermene accorta, persa nelle mie fantasie, ero già di ritorno al locale. Immaginai decine e decine di possibili scenari, sia che avessi accettato, sia che avessi rifiutato la sua offerta di passare del tempo con loro. Alla fine, accettai, “solo qualche minuto però”. Finsi di apparire impegnata.

Furono molto carini con me. Raramente prendevo parte alla conversazione, ma quando parlavo, i suoi amici e la sua ragazza mi guardavano con grande attenzione. Cercai di sembrare interessante, eccezionale, formidabile. Raccontai aneddoti sui miei viaggi, su quello che avevo letto o studiato e sull’università, dimostrandomi un mostro di simpatia, facendoli ridere. E quando capitò il discorso esami, Roberto mi chiese di vederci per passargli gli appunti. Gli lasciai il mio numero di telefono. Ero al settimo cielo.

“Scusate per la figuraccia di prima”, aggiunsi, prima di congedarmi. Furono tutti molto comprensivi: al mio posto, secondo loro, avrebbero dato di matto. Dissero che erano stati felici di conoscere una bella ragazza come me, simpatica e divertente, e che speravano di rivedermi quanto prima. Non lo diedi a vedere, ma ero incredula. Provai una sensazione di calore mai sentita prima. Forse è così che ci si sente quando si hanno degli amici, pensai. Io ero sempre stata per conto mio, e mi piaceva. Ma questo… Stare insieme a queste persone… Anche questo mi piaceva. Era qualcosa di diverso, ma altrettanto bello. Era stato come mangiare un cibo che non pensavi potesse essere così buono, oppure ascoltare una canzone che non pensavi ti sarebbe piaciuta. Ecco, lo paragonavo ad esperienze del genere, sebbene mi avesse lasciato una gioia che non potevo spiegare.

Non riuscivo a smettere di sorridere mentre tornavo a casa. Fino ad allora, avevo sempre pensato di stare meglio da sola, che avere a che fare con gli altri fosse solo una seccatura, che portasse più problemi che altro. Ma forse era solo un meccanismo di autodifesa. La verità è che ho sempre avuto paura di essere ferita, di non avere nulla da dare, di non poter piacere a nessuno. A queste persone, invece, piacevo davvero. Gli ero sinceramente piaciuta, tanto che, poco dopo, mi arrivò una notifica: mi avevano aggiunta al loro gruppo chat. La ragazza di Roberto mi chiese istantaneamente di trovare il prima possibile un giorno libero per andare insieme a fare shopping. Ero spaventata, ma anche curiosa. Non sapevo come comportarmi, ma smaniavo di riprovare quella meravigliosa sensazione di benessere che avevo provato nemmeno un’ora prima.

In più, avrei potuto parlare con Roberto, conoscerlo meglio. E, con un po’ di fortuna, avere delle occasioni per passare del tempo insieme a lui. Quanto poteva fare male diventare amica del tipo che ti piace, e non solo, ma anche della sua ragazza? Avrei scoperto a mie spese, solo più tardi, che è devastante, ti distrugge dentro, ti lascia dei vuoti insanabili, a lungo andare. Ma quel giorno non mi interessava. Ero felice, perché avevo trovato qualcosa di cui non sapevo nemmeno di aver bisogno, finché non lo avevo provato, e di cui non avrei più potuto fare a meno, da lì in avanti: degli amici.

E pensare che quel giorno neanche ci volevo andare, a lezione.

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